Riproduciamo qui la sintesi dell’intervento di Fabio Camponovo all’ultima assemblea della nostra associazione, tenutasi il 6 febbraio scorso.

Due premesse doverose

Ÿ Quando si affronta un argomento intrinsecamente complesso come quello che è messo a tema di questo nostro incontro – e lo si deve fare in un tempo contenuto – si corrono grossi rischi: rischi di banalizzazione o di eccessiva semplificazione. Svilupperò alcune tesi sperando possano essere intese quali spunti riflessivi. Nell’intervento mi riferirò in particolare a quanto sta avvenendo nel settore dell’obbligo scolastico.

Ÿ Condivido con l’onorevole Bertoli il principio secondo cui occorra avere una “scuola migliore per tutti, non per pochi” (cfr. articolo apparso su “il Caffè” del 27 gennaio u.s.). È un principio che ha il sapore dello slogan, ma che difendo convintamente come indirizzo politico e pedagogico essenziale in una società democratica. Vi aggiungo l’auspicio che nell’avvicinare il tema della scuola dell’obbligo a prevalere sia sempre la dimensione formativa della persona e non una selezione anticipata dei percorsi.

La neolingua dell’innovazione

La prima cosa che colpisce nel dibattito sull’innovazione dei sistemi educativi (e sulle pratiche didattiche) di questi ultimi anni è l’enfasi retorica che accompagna la volontà del cambiamento. Colpisce lo sforzo normativo intrapreso dal DECS per promuovere un nuovo lessico pedagogico e un nuovo linguaggio formativo. Mai è stata così forte l’intenzione di caratterizzare un percorso come nuovo, giusto e pedagogicamente corretto, una buona pratica, una buona scuola. È un’intenzione che ovviamente identifica, per antitesi implicita, una scuola sbagliata, una pratica cattiva, un approccio didattico superato.

Si introduce così un atteso cambiamento di paradigma, una pretesa “rivoluzione copernicana” di tipo pedagogico-didattico. Per farlo si dipinge la scuola – del presente e del passato – come permeata di nefandezze: lo sterile nozionismo, l’incapacità di differenziare gli approcci didattici, il disciplinarismo improduttivo, il sapere fine a se stesso, le lezione frontali ecc. e se ne promuove, senza particolare approfondimento argomentativo, il superamento.

Nella nuova vulgata nascono poi – forse involontariamente –  curiose antitesi: ‘conoscenze vs competenze’, ‘discipline di studio vs trasversalità’, ‘insegnamento vs apprendimento’, ‘contenuti vs metodologie didattiche’, ‘obiettivi vs traguardi di competenza’. Nell’impeto neolinguistico persino la parola “sapere”, che prima occupava il proscenio del dettato pedagogico, sembra avere perso smalto.

Qualche tempo fa ho ascoltato alla radio il direttore del DFA, prof. Alberto Piatti, affermare, a proposito di novità nella formazione dei maestri, che c’è stato in questi anni un passaggio dal “primato della conoscenza” al “primato della persona”. È un’affermazione di cui ho positivamente inteso le ragioni, ma sulla quale invito a esercitare grande prudenza poiché sembra suggerire una contrapposizione tra conoscenza e persona quando di fatto ciò che è proprio della scuola è uno sviluppo personale che avviene tramite l’acquisizione conoscitiva.

Ci stiamo abituando a semplificazioni declamatorie, con il risultato di una gran confusione operativa e di uno smarrimento che colpisce soprattutto i giovani insegnanti. Quanto più produttivo sarebbe, in futuro, aprire il confronto alle contaminazioni concettuali ed evitare sterili dicotomie. Nella scuola dovrebbe regnare la felicità del confronto, la curiosità della sperimentazione, la contaminazione dialettica, la ricchezza della diversità degli approcci. Non esistono infatti, in educazione, verità rivelate, laiche o religiose che siano.

La modellizzazione didattica

Proprio nella direzione appena indicata si è fatta strada – e non solo in Ticino – una strisciante modellizzazione didattica. Per apprezzarla basterebbe riferirsi al valore sacrale che ha assunto il nuovo “Piano di studi della scuola dell’obbligo” o, più in generale, a una forma di ‘globalizzazione’ dei sistemi formativi promossa nei paesi OCSE.

Il tema che riunisce questi due aspetti è quello della centralità dell’approccio per competenze. La didattica per competenze, la programmazione per competenze, i traguardi di competenza, la valutazione delle competenze… sono diventati il fulcro attorno al quale si intende costruire l’identità dell’insegnante moderno e della nuova scuola.

La questione è in sé interessante e complessa. Parrebbe utile, per cominciare, porsi alcune domande di fondo, e su tutte una: in che misura, nella scuola dell’obbligo, l’approccio per competenze (con il suo corollario di situazioni-problema, ambiti, processi, traguardi, format, rubriche ecc.) favorisce l’apprendimento e una solida acculturazione?

Di certo non è domanda anodina, poiché ne seguono indirizzi determinanti per il futuro della scuola. Se ne può certamente dibattere se la questione è posta in termini di benefici resi possibili dalle modalità d’insegnamento. Non si può tollerare invece che la legittimazione del primato delle competenze risulti semplicemente dalla natura direttiva del modello. E in questi anni, purtroppo, sembra prevalere il secondo corno della questione.

Rivelatrice in proposito è la risposta che la Divisione della Scuola e il GOH (Gruppo Operativo HarmoS) hanno dato recentemente alle domande formulate dal “Collegio cantonale degli esperti della scuola media” circa la prevista revisione del Piano di studi. Ne cito uno stralcio: “… si può ben capire come il Canton Ticino, avendo aderito al Concordato (HarmoS), debba seguire alcune linee ben precise, definite da quest’ultimo. È proprio anche per questo motivo che, ad esempio, tutto quanto attiene all’approccio per competenze su cui si basa il Piano di Studio non è in discussione” (Lettera del 12 dicembre 2018). Vi si afferma, con chiarezza, la logica del principio di autorità.

Cinque anni di dibattito sul progetto di riforma denominato “La scuola che verrà” hanno focalizzato l’attenzione – secondo me anche giustamente – sulla specificità delle forme didattiche (per lo più di tipo organizzativo), ma messo la sordina sulla unificazione dei modelli d’insegnamento. Da quattro anni l’intero corpo docente delle scuole dell’obbligo è vincolato (nei famigerati “poli”)  a corsi di implementazione dei principi di un Piano di studio che non si può di fatto mettere in discussione. In questi obblighi io leggo qualcosa che contraddice quella libertà intellettuale e quella autonomia didattica che sono condizioni fondanti dell’attività docente.

Mentre le risorse sono state investite in un immane lavoro di convincimento e di “arruolamento pedagogico”, scarsa è stata invece l’attenzione al dibattito sui bisogni formativi (nuovi e diversi) delle generazioni nate nel primo scorcio del terzo millennio, nonché sullo statuto istituzionale della scuola e del fare scuola. Di quale scuola avrebbero bisogno, oggi, ragazzi abituati a un consumo frammentario di beni materiali e immateriali? Con quali sfide educative dobbiamo confrontarci per fronteggiare i mutamenti antropologico-culturali dettati dalle nuove tecnologie e dall’uso prettamente strumentale delle conoscenze? Come far crescere scolasticamente una generazione disavvezza alla processazione conoscitiva? Come fare liberi i nostri giovani? Come dare loro un’anima culturale?

L’equità, l’inclusione, la differenziazione sono certamente dimensioni importanti e fondamentali per la scuola del futuro, ma non devono impedirci di vedere che le ragioni del disagio formativo che l’istituzione scolastica sta vivendo sono (anche) di ben altra natura.

La proletarizzazione dell’insegnante

Uno degli aspetti più preoccupanti che a me sembra di cogliere oggi nella scuola è il progressivo degrado della funzione professionale dell’insegnante. Un degrado che non è solo riferito alle condizioni di lavoro (oggettivamente difficili), ma che investe in particolare la dimensione intellettuale e culturale della professione. Di questa lenta trasformazione, che segna un passaggio epocale, sarebbe opportuno si interessassero tutti, autorità e insegnanti in primo luogo, secondo il principio secondo cui ‘la buona scuola la fanno i buoni insegnanti’.

L’insegnante purtroppo è sempre più formato – e sempre più si concepisce – come un esecutore didattico. Nella risposta agli esperti che ho citato in precedenza leggo anche questo: “Una delle richieste più importanti che viene avanzata dai docenti è di disporre di materiali didattici da poter utilizzare in classe e da cui prendere esempio”. Sembra dunque che l’insegnante avverta oggi il bisogno di “prototipi didattici, guide metodologiche, rubriche valutative per la valutazione annuale dei traguardi di competenza disciplinari e delle competenze trasversali” (ibid.)

Se tutto questo fosse vero – e non ho motivo di dubitarne – siamo davvero confrontati con un cambiamento del modo di concepirsi maestro, con un mutamento professionale che riduce i margini di autonomia didattica e prelude a una concezione funzionariale dell’attività docente. Non sarebbe importante promuovere uno studio capace di cogliere, nei sui aspetti positivi e negativi, il significato di una trasformazione in atto? Quanto legge un insegnante che insegna a leggere? Quanto scrive chi insegna a scrivere? Quanto studia chi insegna a studiare? Quanta passione per un ambito di studio anima chi, sulla carta almeno, dovrebbe trasmettere analoga passione allo studente?

I segnali di quella che definirei una “proletarizzazione” dell’attività docente sono impliciti ma ben presenti, a partire dall’enfasi oggi posta dal Dipartimento nella promozione di “buone pratiche” intese come modelli certificati da proporre all’imitazione (per altro il termine best practice, come accade di frequente nel lessico pedagogico, è di derivazione aziendale). Segnali che colgo anche nell’attenuarsi dell’attenzione rivolta alle qualifiche scientifiche dell’insegnante o nella malcelata volontà di introdurre un salario al merito nella scuola.

C’è un tacito indebolimento della matrice intellettuale della professione che si riscontra sul piano della riflessione culturale ed è espressione di un docente che sente di contare poco o nulla nelle scelte di politica scolastica, che si rifugia volentieri nel privato e rifugge le occasioni di riflessione collegiale. L’autonomia didattica e intellettuale dell’insegnamento è un bene comune che, se fossi nei panni dell’autorità competente, mi preoccuperei di preservare.

L’erosione dell’autorità della scuola e del maestro

C’è infine un altro fenomeno sul quale mi soffermo brevemente ma che per l’importanza politico-culturale che assume oggi meriterebbe ben altro approfondimento.

Mi riferisco alla percezione socialmente diffusa della scuola come servizio educativo a disposizione del cittadino-cliente; una percezione (ma probabilmente anche una dimensione reale) che si va progressivamente sovrapponendo al tradizionale fondamento istituzionale dell’impegno scolastico. Si tratta di un fenomeno, ancora poco indagato, che contribuisce all’erosione costante del prestigio e dell’autorità stessa della scuola e del maestro.

Sono diversi i segnali, e di diversa natura, che in questa direzione mi sembra di poter cogliere. Ne cito alcuni:

  • l’abuso del concetto di “centralità dell’allievo”, là dove invece si dovrebbe propriamente parlare di una centralità della relazione educativa tra insegnante e allievo;
  • il fraintendimento legato alla valorizzazione di una pedagogia costruttivista fondata sull’idea  di una maieutica fra pari (con l’insegnante che diventa soprattutto un facilitatore di situazioni di apprendimento e smarrisce il suo ruolo di autorevole conoscitore del mondo);
  • la personalizzazione didattica a discapito del valore e del significato, anche simbolico, della comunità di scambio e di confronto rappresentata dal gruppo-classe;
  • la promozione di approcci differenziati che rispondano alle esigenze intrinseche della persona-allievo (con moltiplicazione dei casi particolari);
  • le richieste avanzate dal cittadino-genitore-cliente che dalla scuola vuole un servizio personalizzato capace di rispondere alla sua  peculiare domanda educativa;
  • il senso di inadeguatezza (e di frustrazione) che percepisce il docente di fronte alla gestione di classi eterogenee e di richieste alle quali non sa più far fronte;
  • la facilità (e la superficialità contingente) con la quale il politico avanza proposte mirate d’intervento in ambito scolastico; ecc.
Per concludere e rilanciare

A me pare che esista un filo conduttore, una correlazione, fra le ragioni del disagio che ho sommariamente indicato nel mio intervento. Forse è anche per questo che le occasioni collegiali di riflessione sono ormai poca cosa nella scuola. Mi chiedo se non è anche per queste medesime ragioni che l’associazionismo magistrale è in difficoltà e se non ne derivi indirettamente una forma di passiva rassegnazione.

Credo che la scuola sarà capace di interrogarsi sul proprio futuro quando uscirà da un tecnicismo manierato ed entrerà in una vera fase analitico-progettuale aprendo lo sguardo anche su queste nuove realtà del lavoro formativo. A quando un dibattito vero e documentato su questi temi?