Nota introduttiva.
Il presente documento non costituisce una vera e propria “presa di posizione” plenaria in merito al progetto di riforma denominato “La scuola che verrà”. Data anche la natura molto complessa e variegata degli aspetti su cui il testo dipartimentale si interroga, ci è parso difficile, in questa fase del percorso, esprimerci in maniera netta e univoca a favore o contro la proposta, considerata nella sua integralità. In queste pagine, senza pretese di esaustività, si è invece preferito sollevare delle domande, indicare delle criticità condivise e fornire degli spunti di riflessione su alcuni passaggi nevralgici del documento, evidenziando, al di là delle diverse sensibilità individuali relative a questa o a quella idea, quegli aspetti che ci paiono maggiormente convincenti ed argomentando la nostra perplessità su quelli che, al contrario, ci suscitano attualmente qualche dubbio.
I docenti della nostra sede hanno letto con serietà e rispetto le pagine de “La scuola che verrà”. In occasione della seduta plenaria del 20.04.2015, conservando la struttura del documento stesso, sono stati poi creati alcuni gruppi di lavoro, all’interno dei quali sono state formulate le considerazioni che, in gran parte, abbiamo cercato di formalizzare in questo elaborato. Infine, nella riunione del 04.05.2015, abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci direttamente con il dir. Emanuele Berger, il quale si è mostrato molto disponibile nel rispondere alle nostre osservazioni. Benché ogni docente sia stato esortato a rispondere individualmente al formulario online, ci è parso opportuno, anche in segno di apprezzamento per la scelta di sottoporre ad ampia consultazione il documento, raccogliere in forma scritta le nostre impressioni, in modo da offrire al dibattito un punto di vista più organico e articolato rispetto a quanto consentitoci dagli strumenti elettronici.
Riflettere sulla scuola.
Al progetto “La scuola che verrà” occorre innanzitutto accordare il merito di aver stimolato e rilanciato presso l’opinione pubblica un vivace dibattito attorno ai principi su cui si fonda l’istituzione scolastica, e attorno alle modalità operative grazie alle quali quei valori costituenti dovrebbero trovare una traduzione concreta.
Tale riflessione appare oggi indubbiamente urgente, in quanto la scuola si trova al centro di uno scenario sociale in continua e repentina evoluzione, nel quale non si può negare l’emergenza di realtà e tendenze del tutto nuove e forse in parte anche sconvolgenti. Il documento, a questo proposito, fa per esempio riferimento a fenomeni come “il multiculturalismo, le nuove modalità di informarsi e di apprendere, la mole degli stimoli a disposizione, la presenza di nuovi modelli e culture familiari, il ruolo dei media sociali” (p. 5). Dalla presa d’atto di tali sviluppi, sorge la volontà e l’esigenza, condivisa da gran parte degli attori scolastici, di ribadire, ed eventualmente di ripensare e aggiornare, quei cardini concettuali e pratici che della scuola rappresentano e realizzano l’essenza. In questo senso, il documento “La scuola che verrà” è da considerare un buon punto di partenza, in quanto risponde, con idee e proposte senza dubbio interessanti, ad un diffuso e riconosciuto bisogno di riforma dell’intero sistema della scuola dell’obbligo ticinese.
“La scuola che verrà”: un ibrido.
La lettura integrale del documento rivela la sua natura, per così dire, ibrida. Accanto alla formulazione di valori e principi perlopiù ideali, esso espone infatti anche delle modalità di attuazione pratica, delle strategie esecutive, più o meno approfondite, che dovrebbero costituire il nucleo operativo della scuola del futuro.
In questa caratteristica generale del testo (sugli aspetti più puntuali della riforma si tornerà nel proseguimento di questo elaborato), è forse già possibile individuare una prima criticità.
Proprio perché, come detto in precedenza, la scuola contemporanea si trova a dover agire su uno sfondo sociale sempre più “liquido” (per citare la famosa, ma sempre calzante, definizione di Zygmunt Bauman) e complesso, sarebbe forse stato auspicabile che un così importante progetto di riforma si interrogasse con maggior convinzione sul significato, sul senso più profondo che il “fare scuola” può assumere nella realtà contemporanea e futura[1]. Allo stesso modo, ci sarebbe parsa anche doverosa una riflessione sul “che cosa” insegnare, e sul motivo per cui andrebbero privilegiati alcuni contenuti anziché altri. Non ci pare che queste questioni possano essere date per scontate, o relegate ad un ruolo marginale, in quanto è proprio muovendo dalle risposte a tali domande fondamentali che la scuola si dota degli strumenti per definire sé stessa e il suo mandato istituzionale e sociale. Su tali tematiche sarà forse possibile individuare dei riscontri all’interno dei nuovi programmi HarmoS, che tuttavia, al momento attuale, non sono ancora stati diffusi.
D’altra parte, però, il testo, per una precisa scelta dei curatori – esplicitata a p. 8 (“Non vi sono invece i dettagli applicativi”) – si mantiene vago anche sulla dimensione più strettamente concreta della riforma, sulle condizioni pratiche che garantirebbero la realizzazione nelle classi e nelle sedi delle scelte pedagogico-didattiche programmaticamente promosse ed effettuate. Malgrado tale dichiarata intenzione, è possibile rilevare tra le pagine de “La scuola che verrà” almeno alcune proposte al contrario estremamente definite, anche sul piano pragmatico (tra gli esempi, la modifica della griglia oraria e il profilo dell’allievo e della classe).
“La scuola che verrà” è dunque un documento che si colloca in una sfera mista ed intermedia: non definisce il senso, i contenuti e il valore che la scuola dell’obbligo dovrebbe assumere nella realtà attuale ed immediatamente futura, si preoccupa quasi esclusivamente del “come” insegnare, ma neppure vuole essere esaustivo in merito alle declinazioni pratiche delle intenzioni manifestate. In questo modo, abbiamo l’impressione che il documento appaia eccessivamente parziale ed incompleto su tutti i fronti sui quali si propone di riflettere. Tale caratteristica rende, a questo stadio della riforma, impegnativa e difficoltosa un’adesione convinta e piena a tutti gli aspetti menzionati nel testo.
Un giudizio globale sulle scelte di fondo non può del resto fare astrazione dalle condizioni pratiche relative alla loro attuazione. Per questo motivo, ci pare unicamente possibile per ora avanzare delle considerazioni sui molteplici e variegati spunti offerti da “La scuola che verrà”, alcuni dei quali ci sembrano più sostenibili di altri. In questo senso, riteniamo particolarmente importante che gli esiti della consultazione attualmente in corso possano realmente rappresentare uno strumento di orientamento per il gruppo operativo, non soltanto per quanto riguarda le proposte più concrete, ma anche sul fronte dell’affermazione dei principi e dei valori, in modo che le fasi successive della riforma possano suscitare una condivisione più ampia, magari anche grazie al coinvolgimento diretto delle associazioni magistrali e dei sindacati.
Educabilità, inclusività, equità: principi condivisibili.
Nella prima parte del documento, si espongono i grandi principi sui quali si vorrebbe costruire la scuola del domani: educabilità, inclusività, equità. Si tratta del resto dei medesimi ideali che hanno ispirato e guidato una quarantina d’anni fa la nascita dell’attuale Scuola media unica. Ci pare opportuno che essi siano stati ribaditi e, per verificarne la tenuta nel contesto attuale, sottoposti a consultazione.
Ebbene, i principi menzionati ci appaiono tutt’oggi largamente condivisibili, e in grado di garantire una solida legittimità alla scuola del presente e del futuro. Si ritiene cioè importante che la scuola obbligatoria, in quanto tale, si impegni per garantire ad ogni allievo “le stesse opportunità formative, indipendentemente dalla sua condizione socioeconomica e dalle sue peculiarità” (p. 6), e che essa possa mantenere, nel rapporto con la società, una chiara funzione di correzione, compensazione e resistenza, mediante la promozione di valori e la tendenza a ideali che nel contesto sociale contemporaneo, frammentario, esclusivo, selettivo e caratterizzato da un utilitarismo e da un individualismo dilaganti, non godono certo di grande popolarità.
Sembra quindi che “La scuola che verrà” prefiguri una scuola che, almeno per quanto riguarda il suo orizzonte etico, abbia il coraggio di affermare la propria alterità rispetto allo scenario in cui è inserita. Una scuola che sia cioè in grado di trovare legittimità in sé stessa, che abbia la forza di promuovere visioni e prospettive educative alternative o anche antitetiche rispetto al modello dominante.
Ora, a questo proposito, ci pare che il documento potesse essere ancora più efficace e convinto nel proseguire su una strada che, come detto, trova larga condivisione nel mondo scolastico. In quale modo? Affermando con maggior determinazione la sostanza intrinsecamente culturale della scuola in quanto tale. Dovrebbe infatti proprio essere la cultura, intesa come trasmissione di un sapere comune, di una tradizione condivisa, di un patrimonio unificante, di una scala di valori etici e umani imprescindibili, a doversi assumere il ruolo di solida guida, di appiglio, di àncora all’interno del mare agitato del mondo contemporaneo. Si ritiene cioè che il progetto scolastico, proprio perché fondato su valori di equità, debba soprattutto essere un progetto culturale, poiché al volatile fluttuare dei contesti, alla continua e imprevedibile oscillazione degli strumenti di accesso alla complessità della realtà e della vita, alla dittatura della velocità e dell’ “eterno presente” in cui i ragazzi sono immersi, proprio la cultura – con la sua radicata fissità, con la sua trasversalità, con la sua certo laboriosa, ma anche forse esclusiva, capacità di creare identità e sviluppare il sempre più auspicato “spirito critico” – può rispondere. Una cultura e una gerarchia dei contenuti d’insegnamento che, certo, meritano un normale e costante aggiornamento sulla base dei progressi della ricerca e delle nuove prospettive epistemologiche, ma che devono ancora essere poste al centro del fare scolastico, nel quadro sicuro delle varie discipline d’insegnamento, di cui l’insegnante è esperto.
Ciò detto, visto che il titolo del documento parafrasa quello di una celebre canzone di Lucio Dalla (“L’anno che verrà”), noi, sempre per restare in ambito musicale, riteniamo che proprio e soltanto nella cultura sia possibile trovare quel “centro di gravità permanente” (direbbe Franco Battiato) sul quale la scuola, qualunque scuola in quanto tale, e di conseguenza anche quella delineata in questa proposta di riforma, dovrebbe poggiare. Ci pare, invece, che questo tratto essenziale sia stato eccessivamente trascurato da “La scuola che verrà”.
Il primato della didattica “per competenze”.
Se dunque, dal punto di vista degli indirizzi più ideali, “La scuola che verrà” riconosce all’istituzione scolastica una propria peculiarità ed indipendenza rispetto al contesto, la mancanza di un chiaro riferimento ai contenuti e alle finalità culturali dell’insegnamento, così come l’adesione ormai data per scontata al modello di una didattica “per competenze”, rischiano di ingabbiare il lavoro degli insegnanti in una dimensione puramente strumentale, appiattita sulle richieste e sui bisogni più concreti di quella stessa realtà sociale ed economica di cui la scuola, abbiamo detto, dovrebbe invece farsi organo di compensazione, correzione e resistenza. È il documento stesso, d’altronde, a dichiarare apertamente che “il modello d’insegnamento per competenze” è “l’elemento innovativo fondamentale della revisione del Piano di studio” (p. 17), con il quale, naturalmente, il testo de “La scuola che verrà” è strettamente connesso.
A questo proposito, ci pare corretto ricordare che tale indebolimento della centralità delle materie, paradossalmente, avviene proprio quando, nel frattempo, i criteri di ammissione alla formazione pedagogica per i nuovi insegnanti puntano ad una specializzazione disciplinare sempre più alta. Per l’insegnamento alle scuole medie è infatti attualmente richiesto almeno un “Bachelor” universitario, e, nel caso di un elevato numero di iscritti, si tende a privilegiare chi possiede un “Master”. Eppure, questa attività di confronto e di scoperta con la cultura, di cui il docente deve assumersi la responsabilità in quanto persona altamente formata nella materia, diventa del tutto secondaria, se a caratterizzare il modello dominante contemporaneo sono elementi come l’utilità socialmente riconosciuta, la spendibilità pratica del sapere per scopi definiti, l’utilizzo delle risorse cognitive per risolvere problemi concreti, l’azione, l’operosità, l’inserimento nel “mondo produttivo”, il “saper fare”.
In tale contesto, se ciò che si insegna a scuola si vuole che sia soltanto mezzo, merce, prodotto da usare quando ce n’è bisogno, da accantonare senza troppi rimpianti quando ha smesso di esercitare la sua efficacia pratica, o da ignorare se “la vita” non giunge mai a presentare “situazioni-problema” che ne rendano urgente l’utilizzo, ben si capisce come l’esposizione alla conoscenza, in quanto attività “improduttiva, meditativa e potenzialmente sovversiva”[2] (per dirla con le parole di Fabio Pusterla), da finalità ultima di qualunque attività didattica, si trasformi in obiettivo del tutto secondario, sacrificato sull’altare di una presunta efficienza funzionale cui l’insegnamento dovrebbe tendere.
In questo senso, e ci dispiace constatarlo, “La scuola che verrà” si inchina totalmente ai dettami del mercato globale della formazione, in ossequiosa armonia con chi si prodiga in uno sforzo enorme di vivisezione del sapere, allo scopo di renderlo oggettivamente misurabile, quantificabile, in modo da poter poi più facilmente valutare e anatomizzare gli studenti e gli insegnanti, sulla base di ciò che “sanno fare” o di ciò che hanno concretamente insegnato a “saper fare”.
Il fatto è che se la scuola elegge il criterio dell’“utilità” pratica come principio-guida della sua azione, essa rischia di uscire nettamente sconfitta al cospetto di altre agenzie formative e informative, oggi primeggianti. In quale misura, per esempio, lo studio di una poesia di Giuseppe Ungaretti può “servire” a “gestire le situazioni di vita quotidiana?” E in quale modo lo studio della società medievale può aiutare chi, per esempio, sceglie la strada dell’apprendistato ad “affrontare le sfide della vita futura?”[3].
Riteniamo al contrario che occorra piuttosto insistere sulla scuola come imprescindibile esperienza di formazione e sviluppo dell’allievo in quanto persona, considerata nella sua globalità, e quindi tenendo ben conto anche di tutti quegli aspetti che chiaramente misurabili e certificabili non sono, ma che forse, e per fortuna, risultano più importanti per la crescita umana dell’individuo, a prescindere dalle sue competenze meramente tecniche e strumentali.
Chi si è avvicinato all’insegnamento con tali intenzioni, e con questa visione della scuola dell’obbligo e del proprio ruolo di docente, si ritrova ora confrontato con un netto cambio di paradigma, che, più che incoraggiare, rischia di deludere e demotivare.
La valutazione.
Ne “La scuola che verrà”, si propone che la didattica per competenze, in una continua ansia da controllo e valutazione, sfoci nella stesura di un vero e proprio profilo dell’allievo e della classe, regolarmente aggiornato ed attualizzato, e in una “pagella” conclusiva più dettagliata rispetto a quella attuale, nella quale, oltre alle classiche valutazioni numeriche, troverà spazio anche “una valutazione complessiva che esprime a parole e in modo più articolato le competenze raggiunte” e nella quale si farà riferimento anche “ad altri tipi di competenze” (p. 24). Si tratta di una delle poche misure realmente concrete che il progetto illustra. Anche in questo ambito, tuttavia, chi volesse conoscere maggiori dettagli viene rinviato alla consultazione dei nuovi Piani di studio che però, lo ripetiamo, nessuno di noi ha ancora potuto visionare.
Nel merito di questa proposta, sottolineiamo innanzitutto il fatto che essa comporterebbe un ulteriore e notevole aumento del carico di lavoro per i docenti, in particolare per il docente di classe (o, nella nuova terminologia, “docente accompagnatore”), il quale dovrebbe, di conseguenza, essere sgravato da altri compiti.
In secondo luogo, ci pare che la descrizione delle varie competenze raggiunte nelle varie discipline non sia strettamente necessaria: in questo ambito potrebbe bastare la valutazione numerica. Allo stesso modo, non ci sembra così urgente introdurre gli strumenti del “profilo dell’allievo” e del “profilo della classe”. La trasmissione delle informazioni avviene già attualmente in modo soddisfacente, grazie al lavoro dei docenti di sostegno pedagogico e agli incontri nei consigli di classe. Ci parrebbe invece forse più opportuno, soprattutto al termine della scolarità obbligatoria, esprimere a parole delle considerazioni su ciò che va oltre le competenze disciplinari. È forse a questo che allude il documento quando parla di “altri tipi di competenze”? Per esempio, più che a vere e proprie competenze, si potrebbe fare rifermento all’atteggiamento che l’allievo ha mantenuto a scuola, al suo impegno, al percorso che ha svolto, ai miglioramenti che ha conseguito, al suo modo di relazionarsi con i docenti e con i compagni. Ciò permetterebbe magari di aiutare e valorizzare quegli alunni che magari non ottengono eccellenti risultati nelle materie, ma che ugualmente affrontano la scuola con attitudine positiva e spirito costruttivo, mettendo in mostra quelle attitudini e quelle caratteristiche che, in misura molto maggiore rispetto ad una descrizione dettagliata delle competenze disciplinari, potrebbero eventualmente interessare e affascinare anche un ipotetico datore di lavoro.
L’importante, in questo senso, è che “la pagella” possa costituire un aiuto per l’allievo, e non invece un “marchio”, una “schedatura”, del tutto inopportuna in un momento della vita caratterizzato da una forte instabilità emotiva e identitaria. Dietro una presentazione troppo dettagliata delle capacità degli studenti intravediamo infatti il rischio di un’ulteriore penalizzazione dei ragazzi che mostrano maggiori difficoltà scolastiche. Una misura che vorrebbe dunque favorire l’equità potrebbe invece ottenere l’effetto opposto. Anche a questo proposito, aspettiamo comunque di poter visionare più da vicino le proposte contenute nei nuovi piani di studio.
Una licenza “passe-partout”?
Un’altra delle novità più rilevanti contenute ne “La scuola che verrà” riguarda senza dubbio lo statuto e il valore conferito alla licenza media, la quale, a prescindere dai risultati conseguiti, si vorrebbe potesse “permettere l’accesso diretto a qualsiasi formazione del secondario” (p. 26). Si dovrebbe così rinforzare l’attività di orientamento nelle sedi affinché gli allievi abbiano la possibilità, anche grazie ad un non meglio definito “maggior spazio” (p. 26) di cui dovranno disporre i “docenti accompagnatori” per occuparsi di questi aspetti, di scegliere il percorso successivo più adatto alle loro attitudini e capacità.
L’idea è senza dubbio interessante. Sicuramente i curatori avranno riflettuto a lungo sul rischio di un ulteriore aumento di allievi che potrebbero chiedere l’accesso alle scuole superiori, già oggi oberate. Non ci dilunghiamo dunque su tale aspetto.
Ciò che vorremmo invece sottolineare in questa sede è la scarsa aderenza di questa proposta con la realtà dei ragazzi con cui ogni giorno lavoriamo. Inutile negare che, per molti di essi, il “voto” numerico costituisca un grande (se non l’unico) fattore motivazionale. Rimuovendo invece tale “ostacolo”, è forse vero che non si assisterebbe più alla “corsa al voto” attuale, specialmente in quarta media, ma allo stesso tempo si rischierebbe di eliminare uno degli stimoli maggiori per cui un ragazzo potrebbe decidere di affrontare l’attività scolastica con impegno e serietà, mettendo a frutto tutto il suo potenziale. Ci piacerebbe molto avere a che fare con allievi autonomi, indipendenti, già talmente maturi da riuscire a lavorare per loro stessi, a prescindere dal voto, e allo stesso tempo in grado di cogliere e di apprezzare le opportunità che si offrono loro, ma la realtà descrive invece una popolazione scolastica fortemente eterogenea, in cui molti ragazzi, come si diceva più sopra, non possono godere di un adeguato sostegno famigliare e vivono in un “eterno presente”, nel quale “il voto” assume ancora una cospicua importanza. Nel merito di questa specifica proposta esprimiamo dunque un certo scetticismo.
Il docente.
Sul ruolo che si vorrebbe assumesse il docente nella scuola del futuro, il Plenum del nostro istituto si è già espresso in occasione della presa di posizione in merito al documento “Profilo e compiti istituzionali dell’insegnante della scuola ticinese”, approvato all’unanimità in data 20 aprile 2015, alla cui lettura si rinvia. D’altronde, tra quel testo e “La scuola che verrà” esiste un rapporto di dichiarata (a p. 30) complementarietà, perciò le osservazioni espresse nella detta occasione sono perfettamente trasferibili anche al documento che qui si discute. Ribadiamo tuttavia anche in questa sede soprattutto la necessità di riconoscere nel docente una persona di cultura, dotata di quell’autonomia e di quella libertà d’azione che gli vengono garantite dalla sua alta specializzazione disciplinare e dalla sua formazione pedagogico-didattica. È nel confronto con il sapere, e nelle diverse modalità che egli sceglie per trasmettere i contenuti di apprendimento, che l’insegnante mette in gioco la sua credibilità ed è chiamato ad esercitare la propria responsabilità nei confronti dei suoi allievi. Soltanto riconoscendo all’insegnante tale prerogativa è possibile garantire alla scuola la tanto auspicata equità.
Anche “La scuola che verrà” sembra invece faticare a dichiarare quella che dovrebbe rappresentare la priorità per il lavoro dell’insegnante. La figura del docente, nella proposta di riforma, appare infatti frammentata in una gran moltitudine di “sotto-ruoli”, che del resto esistono già in gran parte anche nella “scuola che c’è”. Preso atto della situazione attuale, il progetto di riforma avrebbe dovuto piuttosto stabilire una chiara gerarchia tra i diversi compiti che il docente è (e sarà) chiamato a svolgere. Laddove invece si tratterebbe finalmente di asserire con chiarezza la natura principalmente culturale del suo compito, “La scuola che verrà” si limita a formulazioni vaghe (“stimola la curiosità verso il sapere” p. 32) o fumose e del tutto incomprensibili (La lezioni definite come “attività tematiche significative” a p. 13). Purtroppo, da questa sorta di timore nell’affermare il primato della conoscenza nell’azione quotidiana del docente, e dall’enfasi che è al contrario riposta sul ruolo “attivo” che dovrebbe giocare l’allievo nella “costruzione” del proprio sapere, emerge un’immagine distorta sia dell’insegnante attuale, protagonista assoluto della lezione, sia dell’allievo, mero spettatore inoperoso, pronto ad immagazzinare nozioni e concetti calati dall’alto da un’autorità distante e indiscutibile. Tale rappresentazione non corrisponde assolutamente alla realtà dei fatti. Pratiche differenziate o modalità di lezione diverse da quella squisitamente frontale sono infatti largamente adottate anche nella scuola di oggi.
Condividiamo e sosteniamo comunque la generalizzazione e il potenziamento delle pratiche di differenziazione su cui “La scuola che verrà” pone opportunamente l’accento. Allo stesso modo, ci pare che muovano verso la giusta direzione le proposte relative alla creazione di un portale di condivisione di percorsi e attività, alla promozione di una cultura della collaborazione all’interno e all’esterno delle sedi (a patto che essa si realizzi in modo spontaneo e naturale, senza diventare un’imposizione), al potenziamento dei laboratori. Naturalmente, la possibilità di lavorare con gruppi ridotti di allievi, e di cooperare in classe con altri insegnanti di materia o con i docenti di sostegno pedagogico (“co-teaching”), renderebbe più semplice l’attuazione dei progetti di differenziazione. Maggiori perplessità suscita invece la modalità didattica degli “atelier”: come detto in precedenza, nutriamo dei forti dubbi sulle capacità di “autogestione” e di fruttuosa collaborazione degli allievi, così come sul ruolo di mero “regolatore” o “animatore” che il docente dovrebbe svolgere in questi spazi. Gli “atelier” rischierebbero dunque di sottrarre tempo prezioso all’insegnamento disciplinare, senza tuttavia portare tangibili benefici agli allievi stessi.
Ci preme infine sottolineare come le indubbiamente apprezzabili proposte di differenziazione e personalizzazione indicate da “La scuola che verrà” abbiano un costo di realizzazione molto elevato, non soltanto in termini economici, ma anche sul fronte dell’investimento di tempo e di energia richiesto agli insegnanti, nel lavoro in sede e nelle attività di formazione continua. Non essendo ancora chiarite le modalità di attuazione, ci limitiamo per ora non soltanto ad auspicare, ma anzi, a richiedere con forza la creazione di condizioni quadro adatte allo scopo, nella speranza che le “opportune misure” (p. 19) promesse da “La scuola che verrà” si rivelino effettivamente tali.
La griglia oraria e le forme didattiche.
Abbiamo qui sopra accennato alle forme didattiche, in parte nuove, che “La scuola che verrà” intende promuovere nelle sedi. Per rendere operative tali proposte, sarà necessaria una ridefinizione della griglia oraria, che si vorrebbe rendere più flessibile, senza tuttavia “intaccare l’attuale equilibrio quantitativo tra le discipline” (p. 17), alcune delle quali potrebbero però conoscere un’“organizzazione modulare”, sempre naturalmente nell’ottica di favorire “una didattica orientata alla scoperta e all’apprendimento, piuttosto che alla trasmissione e all’insegnamento” (p. 17). In questo senso, all’interno della nuova griglia oraria dovrebbero trovare uno spazio maggiormente codificato attività che già ora vengono svolte presso le sedi (“le giornate/settimane progetto”), in modo che anche le molteplici “educazioni” (“alla scelta”, “alla cittadinanza”, “la giornata del volontariato”) extra-disciplinari di cui gli insegnanti si devono occupare vengano inserite in maniera più definita ed armoniosa nel calendario scolastico.
Anche su questi aspetti, comunque, “La scuola che verrà” mantiene una certa vaghezza quando si tratta di esplicitare concretamente gli effetti che tali modifiche produrranno sull’attività quotidiana di studenti ed insegnanti. È dunque difficile esprimersi ora in merito. Ciò che però fin d’ora appare piuttosto chiara, è l’ulteriore frammentazione dell’attività scolastica, con conseguente indebolimento delle discipline, che tali modifiche causeranno. L’opera di costruzione del sapere necessiterebbe invece di una solida continuità, di un quadro (quello appunto rappresentato dalle discipline) stabile, entro il quale eventualmente affrontare problematiche di più ampio respiro.
Tale struttura, inoltre, comporterà, senza dubbio, per le direzioni una considerevole fatica nella composizione delle griglie orarie e nella gestione della quotidianità dell’istituto, mentre per i ragazzi, attraverso “le opzioni”, si aprirà la possibilità di scegliere, come se si trovassero in una sorta di supermercato dell’educazione, le attività che loro riterranno più congeniali, perdendo forse così la possibilità di conoscere e di approfondire aspetti che in futuro, probabilmente, molti di loro non avranno più l’opportunità di scoprire. Una misura che vorrebbe dunque favorire l’equità rischia di ottenere l’effetto opposto.
Troviamo corretto che la scuola si adatti il più possibile ai bisogni e alle capacità del singolo allievo, soprattutto di quelli maggiormente in difficoltà, ma riteniamo che essi vadano aiutati e sostenuti in modo diverso: non privandoli di alcune importanti occasioni formative, bensì attraverso il potenziamento del sostegno pedagogico e delle misure di differenziazione curricolare già attualmente previste, attraverso la possibilità di lavorare in classi numericamente più ridotte e attraverso lo svolgimento di attività di recupero opportunamente progettate e pianificate. Non è infine ancora chiaro quali ragazzi sceglieranno quali opzioni e quali docenti avranno le competenze necessarie per la loro messa in atto.
L’istituto scolastico.
Nell’ultimo capitolo del progetto, quello dedicato agli istituti scolastici, “La scuola che verrà”, coerentemente con le intenzioni annunciate nelle sezioni precedenti, propone sostanzialmente due misure: una maggior autonomia da garantire alle direzioni e una diversa organizzazione degli spazi fisici all’interno delle sedi.
Per quanto riguarda il primo aspetto, riteniamo importante che gli istituti, come del resto già oggi avviene, possano disporre di una certa indipendenza sul fronte didattico e pedagogico, anche per garantire quella libertà di cui il docente dovrebbe godere nella sua azione quotidiana. Volendo accentuare ulteriormente la specificità delle diverse sedi, ci pare accettabile anche l’idea di attribuire alle direzioni un budget cantonale da amministrare autonomamente. In questo ambito, ci preme ribadire però l’importanza di mantenere il principio di una forte equità territoriale.
Desta in noi invece qualche preoccupazione l’idea di conferire alle direzioni maggior potere decisionale sulla scelta dei docenti e sulla gestione del personale, poiché abbiamo l’impressione che, così facendo, la scuola perderebbe ulteriormente la sua natura istituzionale, a favore invece di una visione più aziendalista, all’interno della quale essa diventerebbe una sorta di erogatrice di “prodotti” e di “servizi” a disposizione di un “cliente” in grado di “scegliere” l’“offerta” (di persone, di attività, di strutture) che più apprezza.
In merito alla nuova gestione degli spazi, evidenziamo infine il carattere forse eccessivamente utopistico delle proposte avanzate. Sarebbe ovviamente molto piacevole per docenti e allievi lavorare in una sede che possa disporre di “ambienti insonorizzati” (p. 41), di sale multiuso e di aule adeguatamente attrezzate per le attività di gruppo, ma, oltre ai notevoli costi che tali adeguamenti comporterebbero, ci pare che tali proposte siano di difficile realizzazione in tutti gli istituti, le cui direzioni dovrebbero oltretutto affrontare uno sforzo organizzativo non indifferente per l’adattamento degli spazi e degli orari alle nuove esigenze. Oltre a ciò, nella nostra sede conosciamo molto bene il lungo e laborioso iter che, già avviato da qualche anno, dovrebbe portare, non ancora comunque in tempi brevi, alla costruzione di una quanto mai necessaria nuova palestra. Capiamo naturalmente i tempi dell’edilizia e della logicistica pubblica, ma anche per questo motivo riteniamo estremamente difficoltosa la realizzazione, in questo ambito specifico, di quanto auspicato ne “La scuola che verrà”.
In conclusione.
Concludendo, proviamo a riassumere e a schematizzare le linee generali di quanto esposto in queste pagine.
- I grandi principi su cui si basa il fascicolo “La scuola che verrà” sono considerati validi e condivisibili.
- Si ritengono opportuni gli sforzi previsti nella direzione di una maggior differenziazione dell’insegnamento.
- Occorrerebbe esplicitare con maggior chiarezza e convinzione la natura fortemente culturale delle finalità dell’attività scolastica e del lavoro dell’insegnante. Ci si concentri insomma non soltanto sul “come” educare, ma anche su dimensioni ugualmente fondamentali come il “che cosa” insegnare e il “perché”.
- Troviamo eccessiva l’enfasi attribuita alla “didattica per competenze”. In questo senso, i nuovi strumenti di controllo e di valutazione (la descrizione dettagliata delle competenze raggiunte o meno, “Il profilo dell’allievo”, “Il profilo della classe”, “La licenza passe-partout”), al di là delle diverse sensibilità individuali, suscitano parecchie perplessità.
- Generalmente, le proposte menzionate richiederanno un notevole investimento di tempo e di energia agli insegnanti e alle direzioni degli istituti. Si richiede dunque la creazione di condizioni quadro adatte, affinché il carico di lavoro sia sostenibile.
- Si attendono indicazioni più precise in merito alla realizzazione pratica di molte delle proposte avanzate e si auspica una pronta diffusione dei nuovi Piani di studio.
[1] In questi termini si sono ben espressi anche Fabio Camponovo e Lina Bertola, in due articoli (rispettivamente “Quale scuola verrà?” e “Il senso della scuola”) apparsi su “La Regione Ticino” in data 03.03.2015 e 26.03.2015.
[2] Fabio Pusterla, Una goccia di splendore, Casagrande, Bellinzona, 2008, p. 27. L’autore, nello specifico, con gli aggettivi citati si riferisce più propriamente alla pratica della lettura, ma la lettura è forse lo strumento privilegiato attraverso cui la cultura si manifesta, perciò non ci è parso fuori luogo riprendere anche in questo contesto il passaggio menzionato.
[3] Le citazioni sono tratte dal rapporto PISA 2012. Approfondimenti tematici. Noi le abbiamo riprese da un articolo di Jean Soldini, “La scuola che verrà”, apparso su “La Regione Ticino” in data 7.03.2015.