L’OCST-Docenti apprezza la ripresa di una politica di riforme volta al miglioramento della qualità della scuola ticinese e, dopo uno studio attento ed approfondito del documento “La scuola che verrà”, esprime le seguenti considerazioni.
ANALISI DELLA SITUAZIONE
Nella prefazione (pag. 3) si afferma che “la scuola dell’obbligo ticinese deve sapere in parte abbandonare alcuni rigidi schemi del passato e fare passi avanti significativi nel porsi come luogo stimolante per docenti ed allievi”, senza che vi sia tuttavia una conseguente esplicita definizione di tali schemi da abbandonare né prove evidenti del presunto fenomeno di insufficienza di stimoli presso allievi e docenti. Tale considerazione di metodo e di merito rileva l’opacità e l’indefinitezza dell’analisi iniziale sulla quale si intende fondare il successivo progetto di riforma. Neppure l’aggiunta di un’ulteriore motivazione, ovvero il riferimento alla “rapida evoluzione” della società, evocata a pag. 5, cui deve far fronte una scuola costantemente capace di innovarsi, riesce a giustificare in profondità le trasformazioni delineate. Ogni intento di revisione, parziale o integrale, deve scaturire dalla conoscenza di dati oggettivi, possibilmente noti, inerenti alla realtà scolastica.
- MODALITÀ E TEMPI DI ATTUAZIONE DELLA RIFORMA
L’infelice concomitanza tra l’epocale revisione dei piani di studio inerente ai contenuti dell’insegnamento, l’importante ridefinizione del profilo del docente e l’ambizioso progetto di riforma della scuola dell’obbligo rende assai arduo lo studio di queste tre dimensioni e delle loro reciproche relazioni. Sebbene si tratti di tre elementi distinti, questi non sono tuttavia scindibili se non artificiosamente, essi costituiscono anzi tre aspetti di una medesima realtà che devono essere posti in una relazione di equilibrio e di coerenza. Nella scuola intervenire sul piano organizzativo e pedagogico comporta inevitabilmente degli effetti sia sull’attività e sulla professionalità del docente, sia sui contenuti dell’insegnamento e viceversa.
- FINALITÀ EDUCATIVE O SOCIOLOGICHE?
a) Alla ricerca di percorsi formativi non discriminanti
Il fine ultimo dichiarato della riforma è “diversificare l’offerta di strategie didattiche e pedagogiche in modo da tenere conto delle differenze esistenti fra gli allievi in termini di rapidità e di stili di apprendimento” (pag. 5), offrendo ad ogni allievo “le stesse opportunità formative, indipendentemente dalla sua condizione socioeconomica e dalle sue peculiarità” (pag. 6) in ossequio al principio di equità. È bene ricordare come non ci si trovi in presenza di una novità pedagogica, benché si lasci quasi ad intendere che finora siano stati premiati gli allievi provenienti da ceti favoriti rispetto a chi proviene da ceti sfavoriti. Il rischio di equivocare sui termini e sui messaggi è evidente. Se con tali asserzioni si mira ad offrire indistintamente a tutti gli allievi le medesime opportunità formative di partenza, affrancandosi il più possibile dalle condizioni socioeconomiche, allora siamo in continuità con la tradizione della scuola ticinese e ogni docente si riconoscerà agevolmente nel testo. Se invece il “tener conto degli stili di apprendimento, dei tempi e delle peculiarità dell’allievo” significasse in qualche modo mascherare o attenuare l’annotazione dell’effettivo grado di conseguimento degli obiettivi stabiliti dai piani di studio, allora il progetto diventerebbe problematico. “Valorizzare sensibilmente le prestazioni di tutta la popolazione scolastica, sia degli allievi che raggiungono più facilmente gli obiettivi formativi sia degli altri, attraverso opportunità formative differenziate” (pag. 6) arrischia di essere un eufemismo controproducente: la valutazione non deve prescindere né dalla qualità della prestazione data né dai tempi della sua realizzazione. Non sarebbe educativo cancellare la distinzione tra un buon allievo e un cattivo allievo all’insegna del “diversamente bravo”, non si dimentichi che non tutte le differenze di prestazione tra gli allievi sono riducibili e riconducibili a cause socioeconomiche, né eventuali predisposizioni naturali possono costituire un motivo valido per modificare la registrazione leale e trasparente del profitto scolastico. Non a caso “Scuola a tutto campo 2015” richiama più volte la riforma annunciata dal DECS e in particolare a pag. 32 sposta l’accento dalle “opportunità formative” al nuovo orizzonte delle “opportunità di successo” quale criterio per l’equità misurando il “divario educativo, ossia la differenza nei risultati raggiunti dai soggetti di una determinata popolazione” alla ricerca di eventuali “condizioni inique che portino i soggetti di uno stesso sistema educativo a raggiungere risultati differenti”. Si assottiglia così la linea di demarcazione tra differenze da riconoscere, accettare e valorizzare in sé e iniquità da correggere e compensare in quanto non coincidenti con modelli sociologici egualitari.
b) “Nuovi” principi educativi per un piano di coesione sociale
Quando si osservano gli indicatori nazionali ed internazionali segnalare un eccellente (pag. 6) tasso di equità della nostra scuola contro un basso livello nella padronanza delle discipline, l’indirizzo attribuito alla riforma si presenta ancora meno fondato e giustificato. Prefigurare una scuola che preveda “la possibilità per gli studenti di costruire un curriculum più confacente ai propri interessi e alle proprie attitudini, come pure metodi di valutazione in relazione con lo sviluppo di competenze da parte degli allievi” (pag. 6) sgrava l’istituzione scolastica della responsabilità di organizzare una comunità (la classe) e di indicare un percorso valido per tutti, mentre le consente di assecondare le presunte esigenze individuali nella speranza che questo conduca ad un maggior tasso di successi scolastici e “contribuisca in maniera decisiva alla coesione sociale del Paese” (pag. 5). Gli intenti, almeno in quest’ultimo caso, sono di natura eminentemente sociologica e non l’esito di un dibattito di filosofia dell’educazione. Vi è forse un eccesso di zelo nell’applicazione dell’articolo 2 cpv. 2d della Legge della scuola che indica come la scuola “promuove il principio di parità tra uomo e donna, si propone di correggere gli scompensi socio-culturali e di ridurre gli ostacoli che pregiudicano la formazione degli allievi”, dove sembrerebbe che la cultura scientifico-disciplinare sia avvertita più come un ostacolo alla formazione democratica degli allievi e alla equa correzione degli scompensi socio-culturali che come una chiave per accedere alla conoscenza di se stessi e della realtà tramite l’investimento personale.
Per valorizzare e accompagnare meglio quegli allievi che non presentano le caratteristiche per accedere agli studi superiori, invece di limare gli ostacoli scolastici, si dovrebbe ad esempio pensare che l’accesso alle scuole professionali (attualmente spesso limitato da vari fattori) necessita in ogni caso di una solida formazione di base e dell’abitudine a confrontarsi con difficoltà. Occorre anche agire sul mondo del lavoro rendendone più attrattive le condizioni, specialmente valorizzando determinate professioni. Si ricordi che nel 2012 il Ticino ha visto diminuire sia l’importo medio sia il numero di borse di studio erogate per gli studenti del secondario II, attestandosi sotto la media svizzera, mentre per quanto riguarda il terziario il cantone ha concesso assegni per un valore medio più elevato e per un maggior numero di beneficiari rispetto alla media svizzera[1]: in definitiva, si riscontra un discreto margine di manovra nella politica di finanziamento allo studio e di sostegno ad un certo tipo di allievo.
Per quanto attiene ai princìpi in ordine ai quali si orientano le innovazioni proposte, la sottoscrizione del principio di educabilità è la condizione prima per insegnare, su cui è superfluo aggiungere altro. Un discorso analogo vale per il principio di inclusività, sulla cui attuazione occorre tuttavia un approfondimento supplementare. L’eterogeneità invece, non è un principio, bensì una situazione contingente con la quale, a seconda dello spazio e del tempo, una comunità può essere confrontata. Sebbene la “valorizzazione della diversità” parrebbe accostarsi a quanto auspicato, anche in questo caso è necessario stabilire sin dalle prime fasi di revisione in che modo si intende concretizzare il principio dell’eterogeneità, considerato che le differenti potenziali modalità di attuazione non si equivalgono.
- DIFFERENZIAZIONE CURRICOLARE E VALUTAZIONE
a) Trattamenti diversificati per parità di risultati
E’ tuttavia lecito domandarsi fino a che punto si possa spingere la scuola nell’intento di “valorizzare le prestazioni degli allievi”. Occorre stabilirlo inequivocabilmente, altrimenti ci si incamminerebbe su un piano inclinato in cui un tale pensiero, se spinto fino alle sue estreme conseguenze, potrebbe condurre ad attribuire valutazioni positive anche allo scolaro che unicamente respira e cammina: le prestazioni sono e restano comunque diverse tra loro sotto numerosi punti di vista. Infatti, un conto è individuare e indicare precisi percorsi formali (differenziazione curricolare), professionalizzanti o orientativi, sin dalla scuola media (scelta auspicabile), eventualmente con il coinvolgimento di specialisti, altra questione è invece l’indistinta accettazione e “valorizzazione” di ogni prestazione dell’allievo pur di ridurre o di attenuare l’insuccesso scolastico dei più deboli attraverso iter scolastici perennemente permeabili, temporanei, flessibili e indefiniti, finalizzati essenzialmente a disinnescare eventuali tensioni sociali a breve termine.
Non è rassicurante leggere su “Scuola a tutto campo 2015” (pag. 31) che “il termine equità ammette l’esistenza di trattamenti non egualitari nei processi educativi, con lo scopo di rendere uguali i gruppi in partenza svantaggiati”. Indicativa è pure la definizione data di “inclusione” (pag. 32), “intesa come l’insieme delle misure messe in atto dal sistema per compensare situazioni in partenza svantaggiate e portarle al livello minimo richiesto per essere, di fatto, incluse nel sistema”: una sorta di welfare educativo o di letto di Procuste educativo.
In sostanza si passa dal paradigma dell’uguaglianza formale e oggettiva delle condizioni di partenza e di studio (concernenti curriculum di studio, strategie didattiche e obiettivi) alla nuova uguaglianza, ossia quella dei risultati scolastici soggettivi (tasso di successo) grazie all’impiego mirato ed aggiornato in tempo reale di correttivi compensatori personalizzati in deroga al sistema precedente: per rendere tutti uguali accade che tutti siano diversi, così diversi da non poter essere tra loro paragonabili o classificabili, in modo da impedire confronti politicamente sconvenienti. Secondo Marginson, citato a pag. 32 dell’indagine della SUPSI, ciò “aumenterà le libertà umane”. Impossibile non chiedersi di che tipo di libertà si stia parlando, di quella che si sviluppa nel serrato confronto con il dato di realtà da cui si genera un’accresciuta consapevolezza di sé oppure di quella libertà ispirata al “modello Pistorius”, per cui, grazie all’insistito ricorso (interessato) a misure compensatorie cui si avrebbe diritto in nome della situazione di partenza sfavorita, ciò che è diverso diventa orwellianamente uguale, facendo violenza alla realtà, alla verità e al prossimo, non solo metaforicamente. Non è purtroppo possibile esprimersi ulteriormente nel merito senza la sufficiente cognizione di causa, senza conoscere né il mandato attribuito al docente (profilo), né i contenuti attesi dal suo insegnamento, né i percorsi curricolari appena accennati.
b) Quando la scuola attenua la cultura per cancellare l’incidenza dell’ambiente famigliare
Porre l’allievo al centro dell’attenzione non consiste tanto nel plasmare e nel rimodulare continuamente quello che ormai viene definito “il quadro entro cui avviene l’apprendimento degli allievi” (pag. 3) conformemente alle specificità dell’alunno alla ricerca del suo consenso, quanto nell’assumersi davanti alla società la responsabilità di una proposta che si ritiene valida (quantunque articolata), ragionevolmente universale, rivolta a tutti i ragazzi, a prescindere dall’etnia, dalle capacità individuali, dall’orientamento sessuale o dalle condizioni socioeconomiche, esponendone coerentemente le ragioni: questa pare essere una reale accoglienza delle differenze nell’esperienza di un incontro concreto, in un luogo di convergenza e di effettiva condivisione di significati, di senso e di contenuti. La possibile costruzione di percorsi curricolari personalizzati va sottoposta ad un vaglio attento affinché non diventino un accattivante vicolo cieco per allievi mal accompagnati, benché magari temporaneamente sospinti da rinnovata motivazione. Bisogna chiedersi se, in un sistema del genere, un allievo proveniente da situazioni sfavorite e poco motivato sarebbe davvero “liberato”, novello Prometeo, dall’insuccesso scolastico o se invece non accumulerebbe comunque varie insufficienze nelle pur indebolite “dimensioni disciplinari”, aggiungendo tuttavia opzioni e progetti potenzialmente poco utili che lo condurrebbero precocemente verso un binario morto, a differenza dei compagni ben sostenuti dalla famiglia che opterebbero per percorsi scolastici più ambiziosi e adatti, il tutto accentuando proprio quella selezione e quella discriminazione socio-economica che si intenderebbe combattere. E’ interessante notare che a pagina 33 di “Scuola a tutto campo 2015” si auspica di approfondire in futuro proprio l’argomento della “relazione esistente tra qualità dei sistemi educativi e ripetizione della classe”: chissà se si concluderà che un ottimo sistema educativo non genera bocciature, d’altronde in Francia si è già abrogato “de facto” l’insuccesso scolastico, ma, più prosaicamente, adducendo ragioni finanziarie.
Si consiglia dunque una personalizzazione che non sia una deresponsabilizzante occasione di fuga davanti alla realtà, alle difficoltà, ai propri limiti e agli insuccessi e che si configuri invece in un percorso di solida formazione culturale, artistica o inerente al mondo del lavoro e che si traduca in un esigente sviluppo delle potenzialità personali. Attendersi uno sforzo dagli allievi per superare se stessi e il dato contingente è un atto di stima e di fiducia nei loro confronti, mentre riformulare la proposta educativa per andare incontro alle loro più o meno reali caratteristiche rischia al contrario o di decretare la stigmatizzazione di un condizione da cui si ritiene che non sia per loro possibile emanciparsi o di assecondare pretese velleitarie. Si sottolinea inoltre che, paradossalmente, in presenza della molteplicità dei percorsi formativi percorribili, l’inclusività così intesa pare cedere il passo davanti ad un disgregante individualismo formativo o quantomeno pare ben combinarsi ad esso.
E’ bene ricordare che ci si rivolge a scolari e non a studenti, dunque a soggetti meno consapevoli, autonomi e responsabili, sulle cui spalle non si può lasciare l’onere di autoeducarsi. Inoltre, si evidenzia che una scelta educativa non può essere dettata dal timore che la proposta non incontri l’entusiasmo dell’allievo o non corrisponda ai suoi tratti personali e biografici spegnendone la motivazione, ma deve provenire da considerazioni approfondite pregresse.
Probabilmente è necessario definire in modo più netto i termini della questione: il commento ai dati PISA 2009 nel suddetto volume curato dalla SUPSI evidenzia un aumento del divario educativo in Ticino e in Svizzera nella lettura (pag. 37), ovvero del differenziale tra i punteggi più alti e quelli più bassi, inoltre si constata un aumento degli allievi considerati “molto forti” in matematica (pag. 39), a tal punto da registrare 546 punti per gli allievi del corso attitudinale di matematica (superando nel 2009 la media svizzera di 536 punti), contro i 468 punti del corso base (pag. 43). Stando agli autori della ricerca il miglioramento è da attribuire essenzialmente alla recente immigrazione altamente qualificata. Incrociando i dati con parametri sociologici emerge una chiara relazione tra l’origine socio-economica e i risultati ottenuti nei test (pag. 45), così come si constata che nei curricoli più esigenti (attitudinali) vi è una sovra-rappresentazione degli allievi della fascia sociale alta, mentre con il decrescere delle esigenze dei curricoli (da un corso base e uno misto fino ai due corsi base) la situazione si inverte con la sovra-rappresentazione dei ceti bassi e la sotto rappresentazione dei ceti alti (pag. 46). Analogamente l’insuccesso scolastico viene riscontrato maggiormente nei ceti inferiori rispetto agli altri (pag. 48) e la distribuzione degli allievi nel settore post-obbligatorio vede una sovra-rappresentazione degli allievi provenienti dai ceti alti presso il medio-superiore e delle fasce basse nelle scuole speciali (pag. 47).
Il testo, dopo avere distinto le pratiche di streaming (suddivisione degli studenti in diversi percorsi scolastici con diversi programmi curricolari) da quelle di setting (suddivisione degli studenti in diversi gruppi di abilità per una o più materie) quali oggetto di discussione internazionale per stabilire quale tra i due sistemi favorisca maggiormente la riuscita scolastica, dichiara apertamente che “per quanto la formazione di classi più omogenee possa essere reputata funzionale all’insegnamento, spesso coincide con una ripartizione di natura sociale e può esacerbare le diseguaglianze di partenza” (pag. 69). Che cosa fare allora per attenuare questo aspetto? Prima di tutto non essere culturalmente minimalisti di fronte a chi ha più difficoltà e non far prevalere il “politically correct” sui criteri scientifici inerenti ai metodi di insegnamento e di apprendimento, con buona pace, ad esempio, di chi, beneficiando dell’alto livello offerto dai corsi attitudinali in matematica, poteva competere a livello svizzero senza complessi di inferiorità.
La famiglia, seppur talvolta fragile, è una risorsa essenziale nella crescita dei ragazzi e nella loro formazione, pertanto non va espunta come fattore di interferenza nella tensione verso l’equità, al contrario occorre coinvolgerla in un percorso di corresponsabilità in cui si possono immaginare nuove forme di collaborazione. D’altronde il rapporto tra scuola e famiglia viene richiamato dallo stesso “Profilo dell’insegnante”.
- CONTENUTI E FORMAZIONE: NUOVI AMBITI E NUOVI PARAMETRI PER UNA NUOVA VALUTAZIONE
a) Plasmare e valutare il modo di essere e di comportarsi
Lo “sviluppo delle competenze riguardanti la formazione generale e di competenze trasversali” definito negli attesi nuovi piani di studio (citati alle pp. 7-8 di “La scuola che verrà”) anticipa situazioni in cui i docenti saranno chiamati a valutare i loro alunni con criteri quali “comunicazione”, “collaborazione”, “sviluppo personale”, “strategie di apprendimento”, “pensiero riflessivo e critico”, “pensiero creativo” e in nuovi ambiti quali “salute e benessere”, “scelte e progetti personali”, “vivere assieme ed educazione alla cittadinanza”, “tecnologie e media”, “contesto economico e consumi”. Come detto, le materie, da cui ci si vorrebbe liberare, almeno parzialmente, istituendo nuovi indicatori valutativi e nuovi campi formativi, pur essendo all’origine delle frustrazioni di tanti allievi, forniscono anche la chiave per la lettura di se stessi, della società e della realtà. Prevedere l’eventualità di indebolirle oltre una certa soglia, ad esempio rivedendone gli obiettivi “ad personam”, rafforzando sia il mutuo insegnamento tra compagni in gruppi variabili sia le modalità di ripasso autonomo, nonché riducendo marcatamente la spiegazione del docente, potrebbe pregiudicare il raggiungimento del livello di padronanza indispensabile perché le si possa ancora definire “discipline”, ovvero scienze con metodi di studio e nozioni propri che schiudono un sapere altrimenti precluso. Estrarre puntualmente nozioni e procedure da singole discipline in cui possiedono organicamente un ordine e un senso, per farne surrogati atti a sviluppare sedicenti superiori “competenze trasversali” o di “formazione generale” o “tecniche generali di studio”, presenta importanti conseguenze. Forse ci si sta allontanando eccessivamente dall’articolo 2 cpv. 2a della Legge della scuola, che precisa come questa “educa la persona alla scelta consapevole di un proprio ruolo attraverso la trasmissione e la rielaborazione critica e scientificamente corretta degli elementi fondamentali della cultura in una visione pluralistica e storicamente radicata nella realtà del Paese”.
Per quanto concerne la valutazione, se oggi il legittimo desiderio di migliorare la condizione dell’allievo deve necessariamente confrontarsi con i contenuti scientifici impliciti alla disciplina e definiti nei piani di studio, pur con tutti i limiti del caso, in futuro la valutazione, ad esempio del livello di “sviluppo personale” conseguito in “salute e benessere”, potrebbe al contrario prestarsi ad un maggior grado di arbitrio e di approssimazione, sia per la più fragile formazione del docente nei suddetti ambiti, sia per la maggior fluidità dei riferimenti programmatici, scientifici e contenutistici in relazione ai quali si dovrebbe misurare la situazione dell’allievo. Inoltre, paradossalmente, il giudizio così formulato acquisirebbe maggior rilevanza vertendo su una dimensione più intima e profonda dell’alunno, quasi esistenziale; di conseguenza eventuali imprecisioni o inesattezze arrecherebbero maggior danno rispetto a quanto avviene oggi. Si invita pertanto a ponderare e a temperare con maggior attenzione il rapporto tra le discipline da una parte e i nuovi obiettivi formativi generali e le competenze trasversali dall’altra, individuando un modo più armonico ed equilibrato per integrarli, evitando che il rimedio impiegato si riveli peggiore del male da combattere. In tal senso potrebbe giovare riferirsi al modello di competenze definito dal programma quadro d’insegnamento per la maturità professionale (PQMP, Berna 2012) che, in un sistema di centri concentrici, pone al centro le competenze disciplinari, attorno a cui si collocano, allontanandosi, dapprima le competenze trasversali e poi gli obiettivi di formazione generale, giustificando l’impostazione con solidi argomenti.
b) I docenti: da consapevoli testimoni di un sapere a fragili operatori in un ingranaggio perfetto
Con un’operazione autolegittimante ed astratta, benché assai significativa, il progetto dipartimentale presenta la scuola media di Colleverde (pag. 41), ovvero un istituto virtuoso in cui la semplice disponibilità di spazi, di strutture e di condizioni favorevoli genera per moto spontaneo rapporti di collaborazione e di studio proficuo, individuale o collettivo, come se ciò potesse costituire un modello verosimile cui conformarsi o potesse conferire sostanza e credibilità alle idee esposte. La labilità dei riferimenti a dati reali e concreti non è indice di altezza di ideali quanto segno di scarso grado di adesione alla realtà. Proporre scenari idilliaci tramite idealizzazioni utopiche o distopiche non costituisce una solida premessa su cui imbastire una riforma. Il sistema si vuole così idealmente perfetto da poter potenzialmente affrancarsi perfino dall’insegnante e dall’allievo in carne ed ossa, dalla loro libertà e iniziativa personale.
Tale assolutizzazione della perfetta astratta formulazione pedagogica prescinde persino dal rapporto con la materia insegnata, dalla ponderazione a seconda del settore scolastico, dell’argomento trattato e del grado di svolgimento del piano di studio annuale (calendario). D’altronde, compatibilmente con “La scuola che verrà”, dallo stesso Profilo professionale si evince che il docente, ormai sempre più simile ad un duttile pedagogo, non insegna né educa, ma in sostanza forma “strutture mentali che permettono di interpretare e gestire efficacemente determinate situazioni complesse” (“Profilo e compiti istituzionali dell’insegnante della scuola ticinese”, pag. 8), “deve essere pronto a rimettere in discussione in modo anche profondo alcuni concetti, modelli e convinzioni di fondo alla luce dei risultati della ricerca condotta dalle scienze dell’educazione” (pag. 8), “è capace di esprimersi all’interno di un gruppo” (pag. 6), “sa collocare [i contenuti che insegna] in un quadro più ampio”, “sa disimparare quando è necessario” (pag. 11), fino a culminare con il socratico “sa apprendere dai propri errori e si rende conto che il suo sapere è comunque limitato” (pag. 11), in ossequio a quello che pare essere il nuovo imperativo pedagogico: “primum non docere”. Curiosamente nel Profilo non si riscontrano sufficienti accenni al grande lavoro di preparazione e di revisione delle lezioni, nonché di correzione degli elaborati degli allievi, così importanti nella quotidianità dei docenti.
Porre le condizioni per rafforzare la collaborazione tra docenti e la co-docenza, come prospettato da “La scuola che verrà”, gioverebbe sicuramente alla qualità dell’insegnamento, purché ciò si sostanzi in spazi di effettiva e autonoma progettazione e non in una collaborazione pilotata in applicazione di norme e di principi indiscutibili dettati dall’alto. Aggiungere ulteriori gruppi di appartenenza, come lo “spontaneo” sviluppo di Comunità di Apprendimento Professionale (pag. 36), ai numerosi gruppi già esistenti e all’insistenza sul lavoro in rete sembra invece rispondere al desiderio di orientare l’attività dei docenti con l’effetto di aggravarne ulteriormente l’onere lavorativo e di ridurne lo spessore professionale personale. Analogamente, operare con piccoli gruppi di allievi è notoriamente utile all’insegnamento e all’apprendimento, dispiace però che tale investimento sia concesso in via prioritaria in funzione dei suddetti nuovi ambiti formativi, dello sviluppo di competenze trasversali (atelier e laboratori) e delle giornate/settimane progetto e solo subordinatamente a beneficio delle discipline di insegnamento (in tal caso per lo più con finalità di recupero e non di spiegazione, per la quale si prefigurano invece addirittura delle conferenze destinate simultaneamente a più classi (pag. 14), in una sorta di discriminazione pedagogica).
c) Il grande fratello pedagogico
Il docente dovrebbe quindi rafforzare notevolmente lo sforzo necessario a pianificare attività personalizzate e differenziate, a coordinare la sua attività con quella dei colleghi, a compilare numerose griglie valutative e dettagliati profili sia dell’evoluzione ogni allievo sia della dinamica delle singole classi, oltre ad incrementare i colloqui e la collaborazione con gli scolari come con gli altri professionisti del settore (logopedisti, psicomotricisti, …). In particolare il docente di classe viene “trasformato leggermente” (pag. 32) diventando “coach” e “accompagnatore” degli allievi, ovvero il perno sul quale verterebbe il nuovo mandato primario della scuola: l’orientamento scolastico-professionale fondato sui vari indicatori e sulle schede personali prodotte negli anni (seppur circoscritto alla mera dimensione persuasiva, venendo a cadere le condizioni di ammissione fondate sul profitto scolastico). Emblematica è la distinzione tra il docente disciplinarista, ridotto a colui che “stimola la curiosità verso il sapere” (pag. 32), il docente titolare, che invece “conduce attività didattiche e inserisce pratiche di differenziazione” (come se la pratica didattica e il sapere fossero scissi tra loro) e infine il docente di classe, l’accompagnatore, in una sorta di crisi di dissociazione educativa che separa caricaturalmente il sapiente, il didattico e il pedagogo, impedendo a chi conosce e insegna una materia di essere anche un’autorevole figura educativa.
Una conseguenza da non sottovalutare dell’imponente sforzo di schedatura richiesto è quella della ragguardevole e sensibile mole di informazioni registrate dall’amministrazione scolastica, dati ancor più sensibili nella nuova prospettiva estesa ad ulteriori aspetti personali degli allievi e potenzialmente comprensivi di tutti gli ordini scolastici, sulla cui gestione discrezionale si deve vigilare in misura maggiore di quanto occorra con l’attuale divisione tra la sfera comunale (per la scuola dell’infanzia e elementare) e quella cantonale (per la scuola media).
- LA DEMOCRATIZZAZIONE PEDAGOGICA E L’EROSIONE DELL’AUTOREVOLEZZA DEI SAPERI E DEL DOCENTE
a) Personalizzazione e differenziazione non devono nascere per garantire un successo a priori
Dunque, nonostante si dichiari di voler “abbandonare alcuni rigidi schemi del passato”, il documento si presenta piuttosto prescrittivo, quasi a sostituire vecchi schemi con nuovi schemi non meno rigidi, indicando la differenziazione pedagogica quale il cardine attorno a cui deve forzatamente ruotare la scuola del futuro. Il ricorso alla differenziazione pedagogica non è certamente una novità in sé ed è senz’altro utile a far emergere le potenzialità degli allievi, prova ne sia la formazione teorica dispensata da decenni ai docenti in questo ambito, abilitati ad attuare la differenziazione in ogni settore scolastico. In effetti la limitatezza nell’adozione di tale approccio è dovuta ad insufficienze organizzative e strutturali e non a carenze formative o a preclusioni ideologiche da parte degli insegnanti. A scanso di equivoci si deve però precisare che la differenziazione non può essere elevata a garanzia del raggiungimento degli obiettivi minimi per ogni allievo (come insinua o pretende ambiguamente il “Profilo del docente” a pag. 10, dove recita: “l’insegnante è in grado di condurre ogni allievo e ogni persona in formazione a conseguire almeno degli obiettivi minimi rispetto alle tematiche dei piani di studio e di formazione”), assurgendo quasi a panacea pedagogica, a meno che non vengano differenziati anche gli obiettivi minimi, con inevitabili ripercussioni in sede di valutazione, ma, se così fosse, sarebbe necessario fare chiarezza quanto prima all’attenzione dei genitori e della società civile.
b) Riforma scolastica o disciplinamento pedagogico?
L’imperativo di evitare praticamente ad ogni costo l’ “insuccesso scolastico” e di “tener conto” delle numerose specificità di ogni allievo non solo mobilita un ampio ventaglio di strategie di differenziazione pedagogica e di personalizzazione curricolare in cui si accentua l’attenzione verso le competenze trasversali e le attività formative in senso lato, ma, al contempo, si limita ad “auspicare” soltanto di mantenere gli obiettivi fondamentali, “immaginando” che in taluni casi si potranno diversificare sia le tecniche di apprendimento, sia gli obiettivi finali cui la scuola, ormai, deve solo “tendere” nel progetto dipartimentale (pag. 19). In definitiva non si scongiura l’eventualità di differenziare e personalizzare anche gli obiettivi oltre agli itinerari didattici, riducendo d’ufficio l’orizzonte da proporre agli allievi. A ben guardare, considerati i dati ufficiali attualmente disponibili, più che un progetto di riforma scolastica, il documento pare essere un disegno di riforma pedagogica in cui si codificano rigorosamente le quattro forme didattiche consentite in aula e stabilite dalla griglia oraria, si interviene sul metodo di valutazione degli allievi mentre non sono altrettanto definiti, oltre ai contenuti, neppure i contorni dei percorsi curricolari evocati a più riprese a proposito della personalizzazione.
Privilegiare ad oltranza la costruzione autonoma del sapere da parte dell’allievo (autodidassi), del lavoro individualizzato o a gruppi variabili, il rafforzamento delle ricerche sul terreno, l’allestimento di situazioni di esplorazione secondo i tempi e gli spazi attesi dagli allievi (pp. 13-16), secondo le loro capacità e caratteristiche è possibile. Ma, ancora una volta, se non si intende, per il momento, parlare dei costi in termini finanziari del progetto, pena l’accusa di adottare pretestuosamente gli argomenti cari a chi solitamente tarpa le ali alla scuola, allora si parli per lo meno dei costi dell’operazione in termini di tempo, ricordando che, all’interno di un rapporto di insegnamento e di apprendimento, il tempo non è denaro, ma è metodo e conoscenza. Di conseguenza, se si vuole intraprendere questa strada, lo si deve fare nella consapevolezza che in questo modo i contenuti e le cognizioni saranno giocoforza inferiori a quanto attualmente proposto ricorrendo anche alla poco apprezzata “lezione per tutti di tipo classico” (pag. 13).
In effetti un obiettivo primario sembra consistere precisamente nella cancellazione di tali rigidi schemi di tipo classico, disciplinando e codificando in modo pressoché dogmatico e autoreferenziale l’attività didattico-pedagogica nelle quattro forme didattiche ufficiali della “lezione” (ulteriore eufemismo, visto che si tratta ormai di “attività tematica significativa”), del laboratorio, dell’atelier e delle giornate o settimane progetto. L’intento riformistico è di tale intensità da giungere al paradosso ed alla contraddizione. Infatti, se da un lato esalta e proclama la pluralità e la varietà delle forme didattiche (differenziazione), dall’altro pone quale condizione praticamente ineludibile che queste non comprendano le vituperate forme antiche in cui il docente figura ancora quale detentore di un sapere che intende trasmettere, il che pare appunto confliggere sia con le premesse sia con quanto sancito dall’articolo 46 della Legge della scuola, dove si riconosce ai docenti la libertà di insegnamento e l’autonomia didattica.
- CONCLUSIONE
In conclusione, nel documento si ravvisano sia prospettive potenzialmente opportune e benefiche sia aspetti problematici. Il sindacato OCST-Docenti conferma l’obiettivo di migliorare la scuola ticinese e riconosce lo sforzo profuso in tale direzione, pur ribadendo le critiche inerenti alla tempistica del progetto, alla concomitanza delle diverse trasformazioni in atto e alla nomina di collaboratori provenienti quasi esclusivamente dagli uffici dipartimentali e della SUPSI-DFA in gruppi chiusi non sufficientemente rappresentativi del corpo docenti né comprensivi di rappresentanti delle associazioni magistrali e sindacali. Pertanto, allo scopo di ottimizzare i tempi e di valorizzare al meglio il contributo in termini di esperienza e di disponibilità che il sindacato OCST-Docenti in particolare e altre Associazioni rappresentative dei docenti in generale intendono fornire al progetto di riforma della scuola dell’obbligo, chiediamo l’ammissione di esponenti del nostro sindacato e dei suddetti altri organi all’interno del gruppo incaricato di proseguire il lavoro.
1 AA.VV., Scuola a tutto campo 2015. Indicatori del sistema scolastico ticinese, Locarno SUPSI, pp. 56-59.