1. Per una riflessione di ampio respiro sul significato dell’atto scolastico

Il senso e i contenuti della relazione educativa su cui si fonda la scuola pagano lo scotto di un confronto con una realtà socio-economica in veloce evoluzione. La formazione è resa viepiù fragile da un contesto privo di saldi riferimenti valoriali, da un mondo scompaginato dalla digitalizzazione, dal prorompere del disagio giovanile. Si tratta di una crisi educativa che l’autorità politica e dipartimentale non affronta nella sostanza, rifuggendo persino dall’approfondimento riflessivo. In questi anni ci si è limitati a moltiplicare i mandati assegnati ai docenti, mentre si introducevano in tutti gli ordini scolastici numerose micro-riforme e improbabili piani di studio. Queste misure raramente sono state frutto di un ragionamento complessivo su cosa è oggi necessario mettere al centro dell’esperienza educativa e sul perché; esse hanno riguardato perlopiù il come insegnare, coltivando la pericolosa illusione che i problemi saranno risolti rendendo l’insegnamento più “efficiente”.

2. Per una scuola-istituzione, no alla scuola-servizio!

La scuola propone un percorso emancipatore della persona imperniato sull’acquisizione di una adeguata strumentazione cognitiva, di solidi ancoraggi culturali e di stimoli intellettivi. È in tal senso un’istituzione fondamentale dello Stato democratico, che contribuisce alla diminuzione dello svantaggio socio-culturale e promuove un’identità aperta al confronto e alla tolleranza tramite una visione pluralistica dell’impegno educativo. Sono questi d’altronde i principi a cui fa riferimento la Legge sulla scuola attualmente in vigore. Oggi si è però diffusa una concezione prettamente strumentale della formazione. Sempre di più vi è chi concepisce la scuola come un servizio che debba rispondere alle esigenze espresse da attori sociali portatori di interessi parziali (le singole famiglie, le imprese, il mondo del lavoro), come se questi fossero suoi “clienti”: si tratta di una logica miope, alla quale tuttavia strizza l’occhio buona parte della politica cantonale.

3. Per il rilancio dell’investimento pubblico nella scuola

Il Ticino è tra i cantoni che meno investono nell’educazione pubblica e che peggio retribuiscono un personale docente sempre più sotto pressione a causa del continuo aumento, a parità di retribuzione, delle mansioni e degli oneri di servizio. È impossibile affrontare con serietà il tema delle riforme scolastiche – di cui tanto si è parlato negli ultimi anni – senza aumentare le risorse destinate alla scuola. Solo garantendo migliori condizioni di lavoro agli insegnanti e mantenendo attrattiva la professione docente, sarà possibile rispondere adeguatamente alle molteplici sfide che si pongono di fronte alla scuola ticinese. La prospettata drastica riduzione delle pensioni dei dipendenti cantonali va in direzione esattamente contraria.

4. Per la partecipazione degli insegnanti alla definizione delle politiche scolastiche

La responsabilità direttiva del DECS è sempre più assunta da amministratori e pedagogisti, sempre meno da persone di scuola con provata esperienza sul campo; nel contempo il mondo della politica fatica ad ascoltare le istanze e le preoccupazioni provenienti dal mondo degli insegnanti. Non solo: il contributo dei docenti al dibattito pubblico è limitato da direttive che vorrebbero impedire agli stessi di fare dichiarazioni pubbliche o di utilizzare la posta elettronica interna al corpo docente in merito a questioni legate alla politica scolastica. Vi è la necessità di ristabilire il principio secondo cui le riforme scolastiche devono essere ideate e sviluppate da chi si occuperà di porle in essere. Per farlo, occorre ripristinare la centralità dei collegi dei docenti (che la legge riconosce quali “organi di conduzione”!), sia nella gestione degli istituti che nell’esercizio della politica scolastica cantonale.

5. Per una diversa formazione degli insegnanti

Nel contesto di un sistema scolastico sempre più centrato sullo sviluppo di competenze, la formazione degli insegnanti in Ticino sembra promuovere l’acritica acquisizione di un complesso standardizzato di tecnicismi pedagogico-didattici assunti ad assioma. La recente introduzione di corsi destinati a formare candidati privi di un percorso accademico specifico è solo l’ultimo sintomo di una tendenza che porta allo svilimento dei saperi disciplinari e all’impoverimento culturale del mondo della scuola. In questo modo, il deficit di autorevolezza dell’istituzione scolastica rischia di aggravarsi. Vi è invece la necessità di una formazione che, insieme al pluralismo pedagogico, valorizzi l’autonomia intellettuale dell’insegnante.