Pubblichiamo l’intervento che Fabio Camponovo ha tenuto in occasione del convegno organizzato dalla rivista Verifiche il 20 novembre scorso per celebrare il suo 50.esimo anno di vita.

Gli atti della giornata sono stati pubblicati sull’ultimo numero della rivista. Invitiamo tutti e tutte a sostenere Verifiche: è possibile abbonarsi contattando la redazione.

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Quando la redazione di “Verifiche” mi ha chiesto, tempo fa, di dare un titolo a questo mio intervento, avevo solo un’intenzione: quella di provare a ragionare di scuola con riferimento alle persone che vi insegnano e, parallelamente, di provare a ragionare di condizione dell’insegnante in rapporto alle trasformazioni che l’istituzione scolastica ha conosciuto nel corso di questi ultimi decenni. Ne è nato così un titolo a specchio, questa sorta di “chiasmo di La Palice” che oggi voi leggete sulla locandina, dal sapore vagamente sessantottino, non fosse che per il tono perentorio e un po’ minaccioso che esprime: “Senza maestri nessuna scuola; nessuna scuola senza maestri!”

La disposizione a chiasmo intende appunto sottolineare un nesso imprescindibile quando l’attenzione si porti sul successo o sull’insuccesso di politiche dell’educazione. Si è sempre detto d’altronde – e anche dato per acquisito, con formula facile – che “c’è buona scuola se  ci sono buoni insegnanti”, ma raramente ci si è davvero preoccupati della salute dell’una in rapporto a quella degli altri e viceversa. Sull’interdipendenza di senso che scaturisce da questa relazione si preferisce tacere.

Di che scuola abbiamo bisogno?

La promozione di nuovi approcci pedagogico-didattici e le iniziative intraprese in questi anni per innovare i sistemi educativi hanno per lo più posto in primo piano aspetti di natura metodologico-organizzativa, ignorando la riflessione sull’umanesimo politico che è matrice dell’istituzione scolastica e mortificando di fatto lo statuto intellettuale e politico-culturale, nonché nobilmente pedagogico, del mestiere dell’insegnante. In alcuni casi si è persino pensato – forse involontariamente, qualche volta però con un pizzico di presunzione – di poter affrontare il delicatissimo tema dell’educazione come si trattasse di un prodotto aziendale per il quale sarebbe bastato elaborare un piano di sviluppo (di regola in separata sede, arruolando gruppi di esperti) e, contestualmente, di poter ridurre gli insegnanti a maestranze funzionali con incarichi applicativi.

Io penso invece che la questione sia più complessa e che sarebbe opportuno affrontarla con una ponderazione riflessiva di altro tipo. Proprio per questo, allargando inizialmente lo sguardo alla condizione politico-sociale e direi anche antropologico-culturale a noi contemporanea, vorrei cominciare questo intervento con una domanda secca, che necessita però di un adeguato (lungo) preambolo.

– Di fronte all’affermarsi di un globalismo consumista di beni materiali e immateriali (di merci e di pensieri),

– di fronte alla fragilità conclamata di sistemi democratici confrontati con l’appiattimento funzionalista della politica, con il degrado culturale del dibattito, con l’emersione di populismi e neonazionalismi,

– di fronte all’omologazione suasoria prodotta dalla rete delle reti, con il livellamento linguistico e culturale che ne consegue, con la frammentazione percettiva che è tanta parte del suo consumo, con l’incidenza che essa ha – stando alla ricerca nel campo delle neuroscienze – sulle facoltà di processazione cognitiva,

– di fronte al disagio sociale ed esistenziale di larghe fasce di popolazione (in particolare delle fasce giovanili),…

di che scuola e di che maestri abbiamo bisogno oggi?

A questa domanda ne aggiungo poi altre due, brevi, ma ugualmente difficili. La prima: i fenomeni che ho ricordato nel preambolo sono tra loro indipendenti o interdipendenti? La seconda: la scuola può incidere su queste realtà?

Sarebbe folle pretendere risposte (anche se almeno all’ultima domanda dovremmo dire di “sì”, pur coltivando il dubbio,  non fosse che per evitare l’insensatezza civile del nostro impegno). Sarebbe però responsabile portarci appresso questi interrogativi, farceli fedeli compagni nella riflessione e nell’azione.

Scuola-competenze-cittadinanza. Le raccomandazioni dell’OCSE

Invece quando considero l’orizzonte politico-pedagogico dal quale nascono i progetti di riforma della scuola (quelli almeno ai quali abbiamo assistito in Ticino in quest’ultimo decennio, ma potrei sicuramente far riferimento a una situazione nazionale e anche internazionale), non posso nascondere la delusione nel constatare come alla passione riformista questi rovelli riflessivi sembrino tendenzialmente estranei, fors’anche fastidiosi.

Eppure le difficoltà che oggi incontra la scuola nell’assolvere ai suoi compiti educativi sono evidenti.  Viviamo un’epoca che esalta il “presente” e le “istruzioni per l’uso”; un’epoca nella quale il tentativo di portare l’attenzione sulla dimensione di senso politico-culturale del lavoro educativo, sulla matrice umanistica dell’educazione (lo sviluppo cognitivo e intellettuale del ragazzo, l’acculturazione come dimensione costitutiva dell’emancipazione, l’educazione come principio di libertà), non incontra sempre il favore di chi ne assume istituzionalmente la responsabilità.

Più che di  libri e lettura, di conoscenza e di studio (pratiche e strumenti anacronistici?), si preferisce mettere in primo piano l’”integrazione dell’informatica nei processi di insegnamento-apprendimento”, lo “sviluppo delle competenze trasversali”, la “funzionalità dei percorsi progettuali”. Pian piano, quasi senza accorgercene, si va modificando il lessico della scuola e di conseguenza l’orizzonte concettuale del riferimento educativo.

Lo sforzo educativo si declina piuttosto nella funzionalità del rapporto scuola-competenze-cittadinanza. C’è uno slittamento semantico significativo, che in Ticino possiamo ben cogliere sia nella natura dei nuovi piani di studio, sia nelle forme di gestione dell’innovazione scolastica. Gli esempi di una neolingua sono numerosi e non a caso si tratta spesso di espressioni mutuate dalla cultura aziendale (risorse, soft skills, processi, problem solving, buone pratiche, traguardi di competenza, comunità professionali d’apprendimento, gestione della formazione[1] ecc. ecc)

L’attenzione alle forme organizzative e alle metodologie pedagogico-didattiche, nonché alla regolazione, al funzionamento e direi quasi all’omologazione dei sistemi scolastici è direttamente correlabile con le spinte innovative giunte dall’OCSE . L’acronimo sta per “Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico”, per intenderci, quella stessa organizzazione che qualche settimana fa ha consigliato alla Svizzera di portare l’età pensionabile da 65 a 67 anni e di parificare le condizioni pensionistiche delle donne a quelle degli uomini[2].

Beninteso non c’è nulla di scandaloso nel fatto che un’organizzazione economica si occupi di educazione (anzi!) e in effetti i programmi educativi fanno parte integrante dell’impegno dell’OCSE. Semmai può essere discutibile (anche se spesso è sottaciuto) lo spirito di uniformazione e di omologazione che lo caratterizza nonché l’approccio al tema scolastico in termini di influenza attitudinale. Considerate per esempio questa frase, che io traggo dalla pagina iniziale del sito “OSCE-Educazione” in lingua italiana (i corsivi sono miei): “Gli educatori, in ambito scolastico o di altre professioni, svolgono un ruolo fondamentale nel plasmare il comportamento e gli atteggiamenti delle persone all’interno della società[3].

E sul sito di lingua francese leggo un’altra frase interessante (che qui propongo nella forma originale): “La Direction de l’éducation et des compétences de l’OCDE aide les individus et les nations à identifier et acquérir les connaissances et les compétences qui permettent l’accès à des emplois meilleurs et des vies meilleures, créent de la prospérité et favorisent l’inclusion sociale[4].

Tutto bene? Forse sì, forse no. Qualche dubbio può sorgere.

Per l’OCSE ovviamente l’impegno educativo investe soprattutto gli aspetti del vivere civile (educazione ai diritti umani e all’ambiente, alla prevenzione dei conflitti, al benessere sociale ed economico ecc.), mentre non si fa menzione alcuna delle discipline di studio (considerate forse estranee, o marginali, rispetto a tali impegni). Che cosa significherà “plasmare il comportamento e gli atteggiamenti delle persone all’interno della società”? Di quale società? Oppure accedere a “impieghi e vite migliori”? E che cosa si intenderà esattamente per  “prosperità” e “inclusione sociale”?

Sono temi delicati, mi pare, tutt’altro che ‘neutri’; temi e indirizzi che presuppongono una concezione dell’educazione il cui senso filosofico e la cui matrice storica ed ideologica sarebbe importante poter criticamente condividere.

Il feticcio della misurazione e della competizione

Forse non a caso l’attenzione politica all’educazione ha progressivamente spostato il suo baricentro ideologico sulla funzionalità dei sistemi educativi e sulla loro incidenza in termini di competenza. Ci siamo così abituati, per esempio, a concepire l’idea di un regolare confronto internazionale dei sistemi educativi attraverso monitoraggi e comparazioni, grazie alle ormai celeberrime indagini PISA, e ne abbiamo implicitamente ricavato l’idea di una qualità formativa computabile in prestazioni operative o appunto, come si dice oggi, in “standard di competenze”[5].

Sia chiaro che non è qui in discussione l’idea di un confronto (in sé necessario e sempre interessante), quanto piuttosto ciò che indirettamente ne consegue quale implicito valore collegato all’azione educativa. Un famoso aforisma attribuito ad Albert Einstein dice che “Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato”. La domanda che ne consegue è: sappiamo da queste indagini quanto la scuola abbia saputo trasmettere agli allievi in termini di curiosità intellettuale, di piacere della scoperta, di desiderio di appropriarsi di quei paradigmi epistemologici che fondano la nostra storia e la nostra cultura? La risposta è ovvia: “No, non lo sappiamo”.

In una scuola che risponde a questi parametri, ciò che conta è quanto è omologabile in termini di prodotti di competenza. Occorre marciare tutti nella stessa direzione e cercare di primeggiare. Da qui il fastidio, che capita ormai troppo spesso di percepire, per il dibattito partecipato, per il confronto con posizioni divergenti. La tradizione partecipativa degli insegnanti alla definizione delle politiche scolastiche, storicamente radicata nella storia e nei regolamenti della scuola ticinese, perde ogni valenza ideativa perché rallenta i processi di riforma.

La governance dei sistemi educativi, come si direbbe oggi, si è allontanata dal lavoro d’aula producendo un’estraneazione progressiva dell’insegnante. Ecco allora che i Collegi dei docenti e le Associazioni magistrali, che pure tanta parte hanno avuto nel dibattito sulla scuola, diventano tendenzialmente dei luoghi asfittici e di formale registrazione del nuovo corso.

Qui sta l’emergenza forse più allarmante – dal mio punto di vista – per la salute della scuola e dell’insegnante. Una scuola sempre più disegnata dall’alto e sempre meno partecipata, un insegnante sempre più impiegato didattico e sempre meno uomo di cultura.

Un grande costituzionalista italiano, Gustavo Zagrebelsky, in un libro recente dal titolo evocativo Mai più senza maestri, sostiene che viviamo “in una «epoca attivistica»  e antintellettualistica” dominata dalla convinzione che l’importante è ‘fare’ delle cose senza preoccuparsi se siano giuste o ragionevoli, un’epoca nella quale gli intellettuali e i pensatori vengono guardati con diffidenza se non con disprezzo[6].

Gli insegnanti: malessere e rassegnazione

Di fatto cresce negli insegnanti più attenti la percezione di essere progressivamente tenuti ai margini del dibattito; una percezione che si accompagna a smarrimento e a rassegnazione soprattutto quando si avverte un clima di lavoro dentro il quale si parla ormai un’altra lingua, dove contano le gerarchie e i mansionari prescrittivi.

È una distanza, un malessere, un vero e proprio disagio che l’autorità non sembra cogliere, anche quando i segnali sono chiari.

Si veda, per fare un esempio, il comunicato recente del Collegio dei docenti di una Scuola media del Luganese, che reagisce in termini pacati ma fermi alla richiesta amministrativa di un rapporto sulle attività svolte all’interno del quadriennio di formazione continua obbligatoria. Ne propongo un ampio stralcio perché vi avverto tutta l’amarezza di chi pensava che essere maestro significasse ben altro rispetto all’obbligo di rendicontazione formale di corsi in gran parte imposti:

…riteniamo che l’attività di insegnante dovrebbe configurarsi, in primis, nei termini di un impegno intellettuale, all’interno del quale il tempo dedicato allo studio, alla ricerca, all’aggiornamento disciplinare e didattico dovrebbe considerarsi preponderante. Sono questi tratti costitutivi, intrinsecamente correlati alla professione docente, che si concretizzano in moltissime pratiche atte a rispondere al diritto e al dovere dell’insegnante di aggiornare la propria formazione, i propri studi, le proprie pratiche. Si tratta di occasioni (letture, incontri, dibattiti, conferenze, spettacoli, viaggi, confronto con i colleghi, organizzazione di progetti comuni, esperienze nelle classi stesse) non certo facilmente misurabili né quantificabili, che vengono spesso svolti in autonomia, o comunque al di fuori dei contesti “ufficiali”, senza per questo risultare meno “utili”allo scopo, anzi. Riconoscere questo carattere “naturale” e “spontaneo” sarebbe il primo passo per sviluppare una vera cultura e promozione della “formazione continua”, fondata ovviamente su una medesima visione della professionalità degli insegnanti e sulla fiducia del datore di lavoro nei confronti degli stessi. Constatiamo invece, con una certa delusione, che negli ultimi anni […] a dominare la scena sono espressioni come “monitoraggio”, “pilotaggio”, “rendere conto”, “documentare”, “quantitativo minimo”, molto lontani dallo spirito con cui molti insegnanti interpretano e svolgono le loro attività di aggiornamento professionale (e il loro lavoro in senso lato), il cui carattere “nobile” viene invece addirittura svilito dalle nuove richieste e dalla loro natura eminentemente burocratica e “quantitativa”[7].

In effetti, pur senza volerlo, il rischio è quello di esaltare la relazione protocollare, l’applicazione di modelli precostituiti, la rendicontazione, abbracciando progressivamente una concezione burocratico-esecutiva del compito formativo.

Fin dalla formazione iniziale dell’insegnante l’operatività didattica e l’osservanza dei modelli sono identificate come basi della professionalità, diventando non più strumento bensì fine in sé legittimante dell’identità. In un contesto nel quale i piani di studio (quello della scuola dell’obbligo ticinese poi è particolarmente farraginoso) si fanno guida uniformante dell’approccio didattico, in cui si promuovono “buone pratiche” quali paradigmi da replicare, l’insegnante cambia pelle. Lo fa quasi senza accorgersene, anno dopo anno, in una ciclicità temporale dell’impegno che non favorisce una presa di coscienza delle trasformazioni.

La professionalizzazione/proletarizzazione dell’insegnante

D’altra parte fin dagli ultimi decenni del secolo scorso la scuola ha vissuto silenziosamente delle trasformazioni radicali, passando da istituzione (cui era attribuito il mandato politico della crescita intellettuale, culturale e professionale del giovane cittadino) a servizio educativo che si accolla una miriade di compiti socio-educativi (conoscenze disciplinari e di cultura generale, alfabetizzazione informatica, compiti di prevenzione e socializzazione, educazione sessuale, stradale, al rispetto e alla tolleranza, alla cittadinanza, al benessere pisco-fisico, alle scelte ecc. ecc.). Insomma è cambiato il rapporto scuola-famiglie e scuola-società civile, complice anche la crisi attuale dei nuclei famigliari, dei tradizionali luoghi di aggregazione giovanile, l’insorgere di “emergenze educative”. A questo si aggiunga l’importante mutamento dell’identità stessa del giovane allievo: pensiamo anche solo un momento a come le moderne tecnologie della comunicazione abbiano profondamente inciso sui processi di appropriazione della conoscenza, a come si vada affermando sempre più un’ideologia funzionalista della formazione, legata al consumo frammentario e immemore.

A questi fenomeni si è risposto affrontando il tema dell’inclusione, lavorando per una differenziazione degli insegnamenti, ampliando a dismisura i mandati educativi, invocando trasversalità e interdisciplinarità. La scuola come tradizionale luogo della lentezza processuale, della fatica dello studio, luogo anche di nozioni da mandare a memoria, luogo di contenuti disciplinari e quadri epistemologici ben definiti, non esiste più.  Esiste una scuola che cerca di far fronte all’aumento impressionante di richieste formative in termini di servizio educativo. Ed è, questo, un impegno che poggia interamente sulle spalle già  fragili dell’insegnante, senza che le sue condizioni di lavoro siano minimamente cambiate o migliorate (anzi, varrà la pena ricordare che 15 anni fa governo e parlamento del Cantone Ticino ritennero, per ragioni di risparmio, di poter aumentare l’onere dei docenti di un’ora-lezione settimanale senza per questo intaccare la qualità del loro lavoro).

Si consideri inoltre che lo spirito aziendalistico, che fa capolino qua e là nella scuola, considera superfluo (quando non addirittura una perdita di tempo) il coinvolgimento riflessivo degli insegnanti. L’effetto infausto è quello di una progressiva dismissione dell’impegno collettivo nonché una condizione di estraneità del docente alle politiche scolastiche e all’innovazione pedagogica. Abbiamo di fronte a noi un insegnante a rischio di implosione, che sente di essere costantemente inadempiente di fronte a una professionalità cangiante e che spesso sacrifica lo studio personale, si ritira nel privato, stacca la spina appena chiusa l’aula: vive una forma subdola di proletarizzazione del ruolo educativo.

Modellizzazione e standardizzazione didattica

La modellizzazione didattica e certo pedagogismo manierato sono allora la risposta per una figura sostanzialmente passiva, lontana ormai dalla sete di lettura, di cultura, di sapere. Sono le dimensioni di una scuola che guarda prioritariamente a competenze di natura trasversale e in campo disciplinare propone un’omologazione operativa di basso profilo. Dietro il paravento di una raffinata ingegneria pedagogico-didattica (e forse anche dietro i temi delicati della differenziazione e dell’inclusione) si cela il rischio di un impoverimento culturale e di una modestia intellettuale che in verità nuoce a tutti.

Provate a considerare, con me, questa pratica didattica, certificata nel sito ufficiale del DECS come “buona pratica” e dunque idealmente proposta quale stimolo ai colleghi. Si tratta di un percorso di alfabetizzazione informatica per le scuole medie, che prende avvio da una “situazione problema” così descritta:

Gli allievi devono comprare un regalo per un loro compagno di classe che compie gli anni. Si decide di andare in un negozio di Lugano di cui si conosce solo l’indirizzo. Strada facendo nascono altre esigenze e curiosità… grazie a internet si troveranno tutte le risposte![8]

Leggendola sono rimasto basito. Dubito assai che questa sia una reale “situazione problema” ma capisco l’intenzione dell’insegnante, ligio al dettato pedagogico, di partire da una “situazione autentica” e accattivante. Di sicuro internet, anche direttamente sul telefonino, permetterà di trovare tutte le risposte per scoprire l’orario di apertura del negozio, l’offerta di prodotti, i relativi prezzi, gli orari dei bus, il tragitto più breve (non sto scherzando, sono queste le scommesse del progetto), ma ho qualche dubbio circa il fatto che sia questa la scuola di cui abbiamo bisogno. Sono queste le competenze che vogliamo costruire? È forse questa l’”inclusione sociale” a cui fa riferimento l’OCSE?

So bene che l’informatica è una parola magica che apre gli scrigni: il Parlamento ticinese (quello stesso che ha sempre osteggiato la riduzione del numero di allievi per classe e che non si sogna neppure di rivedere le condizioni di lavoro dei docenti), ha avallato quest’anno, senza batter ciglio, un investimento di 47 milioni (quarantasette milioni e centomila franchi, per essere precisi) per l’informatizzazione delle scuole[9]. Oso sperare tuttavia che dall’uso della strumentazione digitale si voglia e si possa ottenere altro!

È indubbio, come scriveva lo psicoanalista Massimo Recalcati, in un volumetto che ha avuto un discreto successo, che negli ultimi anni si è imposta nella scuola un’illusione tecnologico-cognitivista:

...morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione e non a quella degli allievi, declino dell’ora di lezione.[10]

Di che maestri abbiamo bisogno?

L’appiattimento sulle “situazioni autentiche” porta i ragazzi a confrontarsi sempre e soltanto con l’immediatezza, con un presente dominato dall’efficienza e dalla funzionalità risolutiva.

Mi ostino a credere che l’inclusione non si debba realizzare attraverso la banalizzazione, e che debba invece tradursi, per tutti gli allievi, nel confronto con stimoli intellettuali e culturali.

Secondo Zagrebelsky, proprio nell’interesse della società, avremmo bisogno di ‘pensiero’ e più precisamente di  un libero pensiero che solo i (veri) maestri sono in grado di produrre.

Ecco il punto. Oggi più che mai avremmo bisogno di maestri e di scuola che sappiano mettere al centro della loro attività, più che lo sviluppo di un cittadino operoso, duttile, integrato, lo sviluppo della persona attraverso la gratuità del pensiero, il piacere della scoperta cognitiva, il desiderio di conoscere per capire, prima ancora di quello di conoscere per agire.

Essenziale nell’insegnamento è infatti la capacità di mobilitare il desiderio di sapere, la capacità di contrastare l’ignavia, la capacità di aprire orizzonti di senso. Solo strumentale, in questo senso, è l’astratta corrispondenza a metodologie didattiche e persino  perniciosa la tendenza a seguire l’ortodossia pedagogica adagiandosi nel comodo alveo dell’omologazione. Ancora Zagrebelsky:

Il pappagallo non è un “maestro”. Il maestro è innanzitutto chi non s’accontenta. È un raccoglitore sempre curioso dell’infinito mondo del sapere e insofferente dei limiti e degli ostacoli che sono frapposti al soddisfacimento della sua sete di sapere.[11]

Il maestro che non aspira a essere auctor è un maestro fallito. Chi ripete il senso comune e consolida l’ortodossia e il conformismo non è maestro, ma un altoparlante.[12]

Il rischio, davvero mortale sia per l’insegnante sia per la scuola, è quello della tacita accondiscendenza, quello di un habitus mentale che nella celebrazione dei piani di studio e dei format applicativi indichi anche una comoda distanza dalla responsabilità individuale. Una responsabilità che invece è tipica del lavoro intellettuale e che nel caso dell’insegnante è di natura politica, etica, pedagogica.

Quanto studia, quanto legge (quanto tempo ha per leggere e studiare) un insegnante? Che parte ha questa dimensione fondativa dell’identità docente nella considerazione degli obblighi professionali? E quanto l’insegnante stesso la considera un impegno (ma anche una risorsa) imprescindibile per il suo statuto di ‘maestro’? Non so rispondere. So che su questo tema non si fanno ricerche, forse nel timore di scoperchiare una realtà preoccupante.

Mi porto però appresso alcune affermazioni di Zagrebelsky, che suonano anche come mio auspicio conclusivo:

Il maestro è un irregolare … un irregolare che cerca una regola che può essere in contrasto con quella costituita … un critico, uno che mette a nudo, un «provocatore» … che, attraverso connessioni nuove, unioni di tempo, di luoghi, di pensieri, di storie, di persone, crea continuità, contiguità ma anche divisioni, rotture: non però per il gusto delle macerie … Il maestro è un costruttore che riallaccia i fili dispersi in modo nuovo.[13]

Il maestro accende la curiosità ed è capace di vera innovazione in quanto il suo compito è gettare sguardi sempre nuovi in tutte le direzioni: in alto e in basso, dentro e fuori di sé. [14]

Senza maestri si è condannati al pensiero unico e all’omologazione.

Fabio Camponovo

(Bellinzona, 20 novembre 2019)

[1] Non a caso i dirigenti scolastici ticinesi da qualche anno devono obbligatoriamente seguire un’abilitazione in “Gestione della formazione per dirigenti di istituzioni formative”).

[2] Cfr. “Rapporto OCSE 2019 sulla politica economica della Svizzera” consultabile sul sito https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-76910.html

[3] OSCE, Educazione: https://www.osce.org/it/education/

[4] OCDE, Education: https://www.oecd.org/fr/education/

[5] In Ticino la proliferazione di momenti valutativi investe soprattutto la scuola dell’obbligo (test PISA, prove cantonali, prove HarmoS, prove CIRSE per il monitoraggio degli standard di competenza).

[6] Cfr. Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Bologna, il Mulino, 2019, pp. 12-14.

[7] Presa di posizione del Collegio della Scuola Media Barbengo in merito al “Regolamento della formazione continua dei docenti”, Barbengo, 21 ottobre 2019 (il testo è reperibile in internet all’indirizzo: https://movimentoscuola.ch/formazione-continua-dei-docenti-dalle-scuole-emergono-voci-critiche/)

[8] Lezione di alfabetizzazione informatica reperibile in internet all’indirizzo: https://scuolalab.edu.ti.ch/temieprogetti/piano_di_studio/atelier/Materiali%20atelier/08.pdf

[9] In un’intervista al quotidiano “laRegione” del 22 gennaio 2019 il direttore della Divisione Scuola del DECS, Emanuele Berger, affermava che  l’investimento è per “lavagne e beamer interattivi, tablet che permetteranno di ottimizzare (sic!) il tempo di lezione” (l’approvazione del credito, – all’unanimità con 7 astensioni – è dell’11 marzo 2019).

[10] Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Torino, Einaudi, 2014, p. 89.

[11] Gustavo Zagrebelsky, op. cit., pp. 85-86.

[12] Ivi, p.104.

[13] Ivi, pp. 104-105.

[14] Ivi, p. 152.