Mercoledì 28 ottobre si è tenuta online l’assemblea che abbiamo organizzato come Movimento della Scuola con l’obiettivo di avere un’occasione di confronto sull’esperienza della cosiddetta “scuola a distanza”. L’incontro, che ha visto la partecipazione di poco meno di 40 insegnanti, è stato introdotto da quattro “testimonianze”, che abbiamo trovato particolarmente stimolanti. Abbiamo così deciso di pubblicare la versione scritta di tutt’e quattro questi interventi, che troveranno spazio anche sulla rivista “Verifiche”.

  • Un’esperienza di didattica a distanza alla SE (Pascal Derigo, SE)
  • La didattica a distanza e i suoi limiti (Giovanna Lepori, SM)
  • Riflessioni attorno all’esperienza della scuola a distanza (Paolo Galbiati, SMS)
  • Scuola e covid (Fabio Camponovo, MdS)

Un’esperienza di didattica a distanza alla SE

di Pascal Derigo, docente SE

Quando mi è stato chiesto di portare la mia esperienza di didattica a distanza in occasione della recente assemblea, ho accettato di buon grado con l’idea di poter condividere con colleghi che lavorano in altri ambiti, quanto vissuto nel mio settore e al contempo ascoltare quanto si era fatto in altre realtà.

Una premessa necessaria per meglio comprendere il quadro in cui ci si è trovati ad operare nelle scuole comunali è quella che, a differenza di altri settori scolastici, questo non ha ricevuto l’accesso alle piattaforme digitali e di conseguenza ci si è dovuti arrangiare in maniera autonoma.

Il lunedì dopo la chiusura sono andato comunque a lavorare in sede e le prime informazioni che ho ricevuto dalla direzione erano quelle di cercare di non perdere il contatto con i bambini e di far capo alla nostra creatività per quel che concerneva la didattica. Già in questa prima strana giornata, in aula da solo, mi ero reso conto che tutti i bambini avevano lasciato il materiale scolastico sotto ai loro banchi e che per poter imbastire una qualsiasi attività, avrei dovuto riconsegnare loro il tutto. Ho così preparato delle borse e sono passato porta a porta a consegnarle.

In seguito, sebbene non avessi bene in mente cosa fare, ho contattato le famiglie, ponendo loro alcune domande per capire quali potevano essere i margini entro cui potevo muovermi. Le domande erano molto semplici, ovvero chiedevo se disponessero di una connessione internet, se avessero un tablet o un PC e se potessero stampare a domicilio. Nella mia classe, una quarta elementare, tutti avevano una connessione internet e un dispositivo per accedere al web. Diverso invece il discorso per la possibilità di stampare: alcune famiglie non avevano un dispositivo a domicilio.

A questo punto, dopo un gran momento di smarrimento personale in cui non sapevo come agire, ho preso la direzione, grazie ad un esempio di un collega, di aprire un blog e così, tramite un portale specializzato che fornisce diversi modelli preimpostati, ho creato uno spazio dedicato alla mia classe che abbiamo ribattezzato “la nostra aula virtuale”.

Dopo aver provato ad usarlo ho capito che poteva essere un buon mezzo per “entrare” nelle case dei miei allievi, dando così loro un ritmo alla giornata e soprattutto permettendo di mantenere un contatto giornaliero con il docente. Mi era sembrato potesse essere qualcosa che assomigliasse al “fare” scuola.
Ho dovuto ovviamente tenere in considerazione che ogni famiglia era diversa e che soprattutto non tutti i bambini potevano essere aiutati dai genitori. Ho deciso in primis di focalizzarmi su poche attività giornaliere (massimo 3-4), tralasciando, almeno all’inizio, alcune materie. Per farla breve i ragazzi si collegavano tutte le mattine e trovavano un mio filmato dove spiegavo il programma giornaliero. Trovavano anche caricate le schede o gli audio di cui necessitavano per svolgere gli esercizi. La mattina seguente venivano poi pubblicate le soluzioni del giorno precedente e le nuove attività. Come detto però non tutte le famiglie potevano stampare e così mi sono ritrovato, come la maggior parte dei miei colleghi, a fare il “postino”.
All’inizio portavo le schede a coloro che non potevano stampare, in seguito però, per non creare disparità e visto che molti si lamentavano di non trovare più inchiostro nei negozi, sono finito col portarle a tutti.

Il fatto di passare porta a porta mi ha permesso di mantenere il contatto con gli allievi (il blog infatti era svolto completamente in maniera asincrona e mancava il contatto diretto) e di instaurare un profondo rapporto anche con le famiglie. Se da un lato il blog portava, almeno in parte, avanti il programma scolastico, il “porta a porta” coltivava invece il rapporto empatico con allievi e famiglie che improvvisamente era venuto a mancare. Mi sono così ritrovato a passare ore a parlare del più e del meno ma anche ad ascoltare preoccupazioni, paure e perplessità in merito alla situazione sanitaria. Questi rapporti umani sono stati sicuramente appaganti e il poter vedere i bambini, anche solo per scambiare qualche parola, mi ha aiutato molto nel non sentirmi completamente solo e nel mantenere un equilibrio personale.

Il nostro lavoro infatti in quel periodo è stato stravolto ma personalmente ho avuto la fortuna di potermi dedicare a tempo pieno alla creazione del blog, in quanto mia moglie era a casa in congedo maternità e si è occupata totalmente degli aspetti familiari. Ciò non toglie che mi sono sentito solo, i bambini mi mancavano e in generale mancava l’aspetto umano insito nella professione.

Se c’è una cosa che ho capito ben presto è che la didattica a distanza non avrebbe potuto e non potrà mai sostituire quella in presenza. Il rapporto umano dell’insegnamento in presenza è troppo importante per essere tralasciato e su questo penso che la pandemia abbia avuto il merito di metterlo chiaramente in evidenza.

Quando si insegna si ha un contatto con i propri allievi, si osservano le loro reazioni, si tasta immediatamente il polso alla classe. Oltretutto è facile comprendere quanto la didattica a distanza vada ad aumentare il divario tra gli allievi che hanno la possibilità di essere seguiti da quelli invece abbandonati a loro stessi perché in casa entrambi i genitori lavoravano o non hanno le competenze per aiutarli. In marzo abbiamo cercato di portare avanti un programma scolastico che era stato comunque in buona parte già svolto, mentre se dovessimo ora richiudere, ci troveremmo di fronte a ben altre difficoltà.

Personalmente ritengo infatti che se dovessimo passare ad uno scenario 2 o 3 la situazione sarebbe drammatica. Portare avanti un intero programma scolastico sarebbe impensabile e anche le tanto decantate piattaforme digitali, sebbene abbiano delle grandi potenzialità, non cambierebbero la situazione. Va inoltre tenuto conto del forte analfabetismo digitale presente in alcune famiglie e tra i docenti. Molti degli “attori” del mondo scuola infatti, andrebbero in enorme difficoltà se venisse loro richiesto di scaricare e usare questi software.

Nel mio caso la scuola a distanza ha funzionato discretamente, sebbene con molti difetti, grazie e soprattutto alle famiglie che hanno seguito e aiutato i loro bambini. Ho avuto la fortuna di avere un gruppo di genitori molto collaborativi e che avevano il tempo di seguire le attività sul blog. Altri colleghi non hanno avuto la mia fortuna e hanno avuto molte difficoltà nel mantenere i contatti con alcune famiglie e soprattutto a far eseguire dei lavori a domicilio ad alcuni dei loro allievi. Le mie ore di lavoro sono aumentate a dismisura e soprattutto facevo fatica a “staccare” in quanto spesso gli orari di lavoro non erano ben definiti. La pressione che mi sentivo sulle spalle è poi stata enorme, si percepiva la difficoltà di alcune famiglie nel gestire la scuola a distanza, soprattutto laddove i figli erano più di uno.

Infine, parlando del presente anno scolastico, durante l’estate sono state create le piattaforme digitali anche per le scuole comunali, in modo che anche i docenti di questi settori potessero farvi capo. Contemporaneamente sono state inoltre istituite in ogni sede delle persone responsabili di formare i colleghi all’utilizzo di queste nuove tecnologie. Essendo il sottoscritto una di queste, posso dire che molti colleghi si sono dichiarati scettici sull’utilizzo di queste piattaforme, in quanto le ritengono troppo complicate sia per loro che per le famiglie. Gli allievi delle scuole comunali, salvo forse per quelli degli ultimi anni di elementare, sono in genere molto dipendenti dalle famiglie e per utilizzare questi mezzi avrebbero sicuramente bisogno di aiuto.

Concludo infine con l’auspicio, soprattutto per il bene degli allievi, che la situazione sanitaria dei prossimi mesi possa permettere di portare a compimento l’anno scolastico in maniera regolare, in modo che non debbano attivarsi quegli scenari che porterebbero con ogni probabilità ad aumentare la disuguaglianza educativa di una scuola a distanza.

La didattica a distanza e i suoi limiti

di Giovanna Lepori, docente SM

Nel periodo del confinamento, tra i diversi aforismi che ci venivano inviati sul cellulare nel tentativo di alleggerire le nostre preoccupazioni, uno mi era sembrato particolarmente pertinente. Diceva così: “Meravigliosa la didattica a distanza, quella cosa in cui ci metti il doppio del tempo a far capire la metà delle cose a un quarto della classe”. Questa pillola di saggezza riassume bene i legami, di proporzionalità diretta o inversa, tra i tre protagonisti del sistema “Didattica a distanza”: un triangolo pedagogico che, filtrato dalla tecnologia, ha generato una serie di distorsioni delle quali vi parlerò in questo intervento. Con un’importante premessa: va senz’altro tenuto in considerazione che il Ticino a febbraio ha dovuto far fronte a una situazione imprevedibile, a un’esperienza traumatica dove disorientamento ed errore erano quasi inevitabili: trovo quindi interessante, questa sera, cercare di spostare lo sguardo anche su quanto è stato fatto, o non fatto, soprattutto negli ultimi cinque mesi, quando cioè il tempo e la lucidità per riflettere, per condividere, per ascoltare tutti gli attori in causa, erano a disposizione di chiunque.

I risultati dell’indagine “A scuola in Ticino durante la pandemia di Covid-19” della Supsi, forniscono dati interessanti per quanto riguarda i docenti: nella scuola media, l’80% degli insegnanti ha dichiarato di aver lavorato “più o molto più del solito” durante il confinamento, e più della metà dei docenti di essersi sentito “spesso o sempre sotto pressione”. Sappiamo che l’enorme carico di lavoro di quei mesi è stato riconosciuto ai docenti, così come richiesto da più parti, con una giornata di formazione continua: anche se sicuramente non corrisponde alla mole dell’impegno profuso, fa senz’altro piacere e soprattutto fa piacere che il Dipartimento dimostri di aver compreso l’importanza dell’auto-aggiornamento, della formazione svolta in completa autonomia, svincolata da corsi e da relative certificazioni.

Ma torniamo all’aspetto legato alla salute dei docenti, cioè alla pressione, allo stress durante il confinamento, di cui ha sofferto il 57% dei docenti che hanno risposto all’indagine. A questo proposito, permettetemi di aggiungere a margine, che purtroppo il documento di sintesi non presenta i dati disaggregati per sesso: sono pronta però a scommettere che questa percentuale è ancora più alta se si considerano solo le risposte delle docenti donne sollecitate, in quei giorni, da un lavoro di cura ancor più logorante del solito. Ma oggi, a due mesi dall’inizio della scuola, come stanno i docenti? Se guardo attorno a me, io vedo ancora docenti “spesso o sempre sotto pressione”, caricati da mille incombenze, docenti di corsa che faticano a trovare il tempo e la serenità per riflettere, per confrontarsi sul proprio lavoro o anche su quanto accade fuori dalla porta di casa e, ad esempio, stringersi attorno al collega parigino Samuel Pathy. Vedo però anche che queste donne e questi uomini di scuola si impegnano ogni giorno per sanare le conseguenze del confinamento, accogliendo le paure degli allievi e lavorando con loro per ritrovare il senso della conoscenza e un atteggiamento costruttivo verso l’apprendimento. Tutto questo purtroppo sembra non interessare al Dipartimento che ha voluto invece anteporre altre priorità, come appare evidente dal Piano di apertura del 10 settembre. Invece di farsi carico degli allievi usciti dai radar durante la pandemia, invece di dare risorse a quei docenti di classe e di sostegno, agli OPI, ai direttori, che sono andati a stanarli e ora cercano di tenerli ancorati, ha deciso di attivarsi unicamente nell’uso delle tecnologie didattiche. Webinar e Workshop sulla didattica a distanza hanno occupato interi pomeriggi, il diritto allo studio degli allievi è stato convertito in ore-lezione per ri-familiarizzare con Moodle, i genitori con un reddito sufficiente sono corsi a comperare i nuovi computer in offerta: e tutto ciò, oltre a togliere preziose risorse, ha veicolato l’implicita credenza che un uso competente delle nuove tecnologie e una dotazione all’altezza, si correlino a un apprendimento efficace per gli allievi. Sappiamo invece da tempo che tutto ciò non risolverà i problemi legati alla didattica a distanza: anche insegnanti esperti nell’uso delle nuove tecnologie sono impotenti contro fattori quali l’estroflessione dei processi cognitivi o il sovraccarico cognitivo. Così come sappiamo da tempo che tutti i tutorial della Comunità Moodle nulla possono contro la natura fortemente discriminatoria della didattica a distanza, che favorisce chi proviene da un determinato contesto e abbandona proprio gli allievi che invece della scuola hanno più bisogno.

Quindi parliamoci chiaro, quel 59% dei docenti che ha ritenuto, sempre secondo l’indagine della Supsi, di “nessuna efficacia o efficace solo per pochi allievi” l’insegnamento a distanza, purtroppo non si ridurrà in caso di Scenario 3 nonostante tutto il tempo e le risorse investite a trasporre il nostro materiale su Moodle e ad architettare scaffolding. E, di conseguenza, nemmeno la pressione e il disagio dei docenti verranno allentati: come potrebbe un docente stare bene quando vede che i suoi allievi faticano ad apprendere ed è convinto, perché così gli si è fatto credere, che ciò sia unicamente dovuto alla sua incompetenza nell’uso di una piattaforma didattica?

Quindi molti di noi saranno nuovamente sotto pressione, penso ad esempio anche a chi già ora si trova davanti a una classe senza aver ricevuto una formazione adeguata. Come sapete, proprio durante il confinamento, il Consiglio di Stato ha deciso di introdurre, a partire da settembre, i laboratori di matematica e italiano in prima media. Lodevole e apprezzabile iniziativa sicuramente dal punto di vista pedagogico, molto meno purtroppo dal punto di vista della tempistica: per far fronte all’aumento delle ore settimanali, nelle sedi di scuola media sono infatti stati assunti decine di nuovi docenti di matematica, sicuramente molto impegnati ma gioco forza alle prime armi e, soprattutto, ancora sprovvisti della necessaria base didattica e pedagogica per fare questo mestiere. Se il confinamento di primavera ha già messo in grandi difficoltà chi l’esperienza l’aveva, non oso immaginare come vivranno questi insegnanti un eventuale Scenario 3 e a quale grado di pressione saranno sottoposti.

E sempre per restare in tema di salute l’onorevole Bertoli vuole rassicurare la popolazione, “per ora nelle scuole i numeri dei contagi sono bassi e le classi in quarantena meno dello 0,7%” ha dichiarato domenica sul Caffè. Questo dato, però, non ci rassicura poi molto anche perché noi sappiamo bene che una sede scolastica è come una grande famiglia e come la notizia di una sola classe in quarantena al suo interno, tocchi profondamente tutti gli allievi e i loro genitori, tutti i docenti e la direzione di quell’istituto, per i quali quei “numeri bassi” diventano purtroppo altissimi. In questa, come in molte altre situazioni, apprezzeremmo una maggiore empatia dal capo del Dipartimento verso chi nella scuola vive ogni giorno e ancora ci sorprendiamo, noi sì, per lo stile di comunicazione che decide di adottare.

Ma chiudiamo con la buona notizia: lo stesso onorevole ha ribadito che, finché si potrà, rimarremo allo Scenario 1. Me ne rallegro di tutto cuore ed è sicuramente quello che ogni docente desidera. Misure di prevenzione da mettere in atto già a settembre per assicurare alle scuole le condizioni di sicurezza e di lavoro necessarie, però, non ne mancavano di certo. Ad esempio: aumentare i mezzi di trasporto casa-scuola e introdurre da subito l’obbligo delle mascherine anche sui trasporti speciali, fornire mascherine gratuite agli allievi e imporne l’uso, anche per permetterci di poter oltrepassare quel metro e mezzo che ostacola la nostra azione didattica nelle aule; o ancora, aumentare nelle sedi il rapporto d’impiego della segretaria, del custode e del personale di pulizia, negoziare con le strutture ricettive procedure di disdetta più flessibili per le uscite scolastiche o coinvolgere la società civile per creare nuove sinergie sul territorio, e molto altro ancora. Il tempo per anticipare invece di rincorrere questa volta non è mancato, il virus è lo stesso di febbraio e non c’è nulla, ma proprio nulla di imprevedibile in quello che sta accadendo ora attorno a noi.

Riflessioni attorno all’esperienza della scuola a distanza

di Paolo Galbiati, docente SMS e presidente ADSMS

Ringrazio il comitato del MdS per l’invito a contribuire ad una riflessione che -sono pienamente d’accordo- occorre avviare con urgenza per poter agire in modo condiviso e proattivo.

Ho cercato di immaginare in quale modo potessi rendermi utile. Dovrei rappresentare il corpo docente del medio-superiore ma temo che di fronte ad una dinamica così inaspettata, e per molti versi traumatica, le reazioni siano tanto diversificate quante sono le differenti sensibilità e che per questa ragione io non possa aspirare a poter essere rappresentativo. Ho dunque deciso di limitarmi a condividere con voi la mia personale esperienza.

Inizierò dunque il mio intervento, che vorrei suddividere in tre parti, offrendovi uno spaccato della prospettiva di un docente liceale ultracinquantenne, che ha iniziato a insegnare quando l’impiego del televisore iniziava a non suscitare più interesse e il mezzo didattico più avanzato era il retroproiettore.

Un’ottica che si arricchisce grazie alle molte confidenze, raccolte in quanto copresidente dell’associazione di categoria e grazie alla mia partecipazione in numerosi gruppi di lavoro e commissioni di docenti a livello di sede e cantonale.

Il secondo quadro che tratteggerò, mira a focalizzare il recente vissuto di un docente liceale nel contesto storico emergenziale in cui ci troviamo.

Il terzo, a guardare al quadro generale in proiezione futura, oltre la straordinarietà.

Per quanto riguarda la mia esperienza, va detto che fin da tempi non sospetti, ossia una decina d’anni fa, mi sono ripromesso di non oppormi pregiudizialmente ad alcuna innovazione tecnologica che promettesse di arricchire la professione docente.

Ho studiato, sperimentato, collaborato, preso parte a tutte le possibili formazioni e iniziative, cercando sempre di agire con apertura mentale e senso critico, sforzandomi di entrare nell’ottica di coloro che mostravano competenza ed entusiasmo per i cambiamenti che auspicavano e prospettavano.

Allorché dall’oggi al domani siamo finiti in lockdown, ho iniziato immediatamente a far capo alle mie acquisizioni in materia digitale. Ho iniziato ad analizzare le differenti possibilità che venivano offerte dall’Istituzione e più in generale dalla Rete, confrontandole con le esigenze didattiche poste dai 6 differenti corsi che tenevo in quel momento, destinati alle quattro fasce d’età presenti al liceo. Nonappena è stata messa a disposizione la piattaforma Teams ho iniziato a caricare le lezioni che avevo registrato in una sorta di studio di registrazione improvvisato in casa, in cui l’allievo ritrovava me accanto allo schermo su cui passavano le slide riprodotte nel suo fascicolo cartaceo, precedentemente distribuito in presenza. A seguire, ho sperimentato la videolezione, le consegne a distanza, le discussioni in plenum o a gruppi, in videoconferenza o in chat, e molto altro ancora.

Il risultato di tutto ciò è stata una grande frustrazione, man mano che prendevo atto della mia incapacità di riprodurre a distanza l’efficacia della presenza. In particolare, ho sofferto molto quando -progressivamente ma inesorabilmente- gli schermi degli allievi si spegnevano e non si riaccendevano nemmeno su mio esplicito invito. Mi sono lambiccato il cervello cercando di capire cosa potesse spingere un allievo a presenziare ad una lezione standosene in un angolo buio, laddove collegarsi o meno non fosse determinante ai fini dell’assegnazione delle note e della promozione.

Mi sono ripromesso di tornare su questi quesiti, nella speranza che fra il primo e il secondo picco, da parte dell’istituzione, ci sarebbe stata offerta l’opportunità di analizzare la situazione nella prospettiva della preparazione ad un verosimile secondo lockdown. Ho anche dato per scontato che, durante il periodo di tregua estivo, l’autorità avrebbe provveduto ad una rielaborazione del quadro normativo che evitasse un nuovo ricorso allo stato d’eccezione, e che ad esempio avrebbe impedito che il corpo docente e le sue istituzioni e rappresentanze fossero di nuovo messi sotto tutela e trasformati in meri esecutori di decisioni prese d’autorità.

Fin qui la mia personale esperienza. Nella seconda parte del mio intervento, tenterò quindi di sintetizzare il modo in cui, da giugno ad oggi, ho percepito la reazione all’esperienza del lockdown.

Da una parte ho assistito ad un sorprendente attivismo, sul piano digitale, da parte dell’Istituzione: corsi di formazione, consulenze, webinar, potenziamento dell’offerta Teams. Tutto ciò a dispetto di quanto invece sembrava emergere dai pochi dati disponibili (i sondaggi condotti da allievi e docenti al Liceo di Bellinzona) circa l’analisi delle effettive necessità indicate dal corpo docente e studentesco. Si è scoperto che i bisogni espressi non sono ascrivibili tanto alla dimensione tecnica quanto più a quella psicologica, emotiva e relazionale. Moltissimi docenti e allievi hanno dichiarato di essersi sentiti isolati, inascoltati e marginalizzati, oltre che frustrati dalla privazione di ogni qualsivoglia margine d’azione. Per questa ragione, da più parti si è manifestata la necessità di mettere mano alla modalità di gestione dell’emergenza: meno regole a favore di una maggiore chiarezza, informazione più trasparente e maggiore coinvolgimento delle parti, migliore coordinamento fra docenti per sopperire alle necessità degli allievi in termini di gestione del carico di lavoro, dello stress, della frustrazione, del disorientamento, dello sgomento.

E tuttavia su questo versante poco o nulla è stato fatto. Le nuove disposizioni, per gli scenari 2 e 3 (oggetto di due pseudo-consultazioni durante l’estate) mostrano di conseguenza gli stessi limiti della legislazione d’emergenza che ha caratterizzato la primavera scorsa.

Ad esempio, lo scenario 2 pretende che il lavoro autonomo dell’allievo rimpiazzi totalmente la lezione, che diventa quindicinale. Questo implica che gli obiettivi vengano mantenuti tali e quali. E per logica implica che la lezione possa essere considerata marginale o quanto meno non indispensabile. Il cosiddetto “modulo didattico standard” proposto (o imposto?) dalle Disposizioni, vedrebbe l’allievo dover produrre una decina di elaborati ogni due settimane a comprova della riuscita del proprio lavoro autonomo e vedrebbe di riflesso il docente confrontato con la correzione di un centinaio di elaborati a settimana, a ritmo continuo, e con la necessità di fornire un feedback personalizzato. Calcolando 15 minuti per allievo, significa una trentina di ore settimanali che si sommano al lavoro ordinario… Ho segnalato la questione al dir. Berger, il quale ha dribblato la domanda.

Al contempo, lo scenario 2 non prevede lezioni a distanza, mentre ciò che si chiedeva espressamente al Dipartimento era di prevedere la possibilità che la metà classe, da casa, potesse seguire la lezione in diretta, tramite videoconferenza, ritrovando e condividendo, seppur a distanza, il clima della lezione in presenza. Il dir. Bertoli ha risposto che non era possibile: ho intuito che facesse riferimento alla portata limitata delle reti degli istituti. Che peraltro avrebbe potuto essere adeguatamente potenziata durante l’estate, dotando al contempo le aule di webcam e microfono ambientale. Una spesa eccessiva se comparata con i roboanti proclami del “Grande balzo -digitale- in avanti” della scuola? Ma se anche così fosse, poiché la scuola come mandato ha quello di essere una – comunità per educare alla comunità – (vedi l’Educazione alla cittadinanza) sarebbe bastato un invito alle singole comunità, di istituto e di classe, a mettere in atto quello che risponde peraltro ad un metodo adottato in molti paesi sviluppati, non da ultimo dai licei zurighesi, e che viene indicato con l’acronimo BYOD – bring your own device-; tradotto: aiutati che il Dipartimento t’aiuta.

In quest’ottica, da settembre io offro ai miei allievi bloccati a casa l’opportunità di seguire le mie lezioni a distanza, a patto che la classe -in quanto comunità di riferimento- possa mettere a disposizione un portatile e un collegamento a banda larga in hotspot. E funziona: le classi si sono autonomamente organizzate e gli allievi in quarantena hanno testimoniato di essere riusciti a rimanere in sintonia con quanto fatto col resto della classe. Poi un’allieva quarantenata ha chiesto formalmente a tutti i suoi docenti di poter seguire le loro lezioni ed ecco che sono iniziati i problemi, fra cui un iniziale divieto che ora si è trasformato in sofferta tolleranza. La principale ragione di questa contrarietà, secondo il verbale del CdD, è di evitare che gli allievi distinguano fra buoni e cattivi docenti in funzione della loro disponibilità a mandare in diretta le loro lezioni. Evidentemente questo timore nasce da uno stravolgimento del principio di libertà didattica, che non pochi colleghi sembrano non più intendere come il diritto di impiegare con discrezionalità ogni possibile strumento didattico, inclusa la trasmissione in diretta della propria lezione, senza per questo lasciarsi incasellare fra i buoni o i cattivi, e senza temere che qualche allievo lo faccia comunque. A quanto pare, questi colleghi si sentono più liberi nel momento in cui posso evitare di fare scelte didattiche che dovrebbero essere chiamati a giustificare. E perciò chiedono nuove disposizioni, che si sommano alle precedenti disposizioni… A questo proposito, mi ha allarmato l’argomentazione che alcuni colleghi hanno dato alle classi per giustificare il rifiuto di fare lezione online: “Mi dispiace, ma non posso farlo in quanto non ci sono disposizioni in merito”. Noi docenti siamo investiti della responsabilità di formare cittadini attivi: ma che esempio diamo se stravolgiamo il principio di libertà inteso come “poter fare tutto ciò che non è espressamente e legittimamente vietato”, e lo concepiamo invece come “fare solo ciò che le disposizioni prevedono”?

Non so se questo sia una diretta conseguenza del lockdown e della messa sotto tutela del docente, o se si tratti piuttosto di un trend più generale, ma credo in ogni caso la scuola debba tornare a sentirsi ed essere l’ultimo baluardo della libertà, quanto meno della libertà intellettuale…

Concludo con la terza e ultima parte del mio intervento, che riguarda la prospettiva più generale e il futuro post-pandemico.

Al di là di tutto ciò che attiene alla reazione rispetto alla situazione straordinaria che stiamo affrontando, occorre guardare con lucidità e lungimiranza alle dinamiche che resteranno, una volta tornati alla normalità.

Fino a che punto e in che modo si ripercuoteranno sulla scuola, così come è stata impostata e organizzata fino a marzo scorso, la progressiva ipertrofia normativa (disposizioni su disposizioni) operata in modo verticale su una struttura, quella dell’istituzione scolastica, fondamentalmente orizzontale, costituita da collegi docenti, consigli di direzione, collegio direttori, consigli di classe, assemblee allievi e genitori, consigli di istituto, gruppi di materia, commissioni, ecc.ecc.)? Come verrà modificato l’assetto organizzativo composto da organi collettivi, a fronte di un lungo periodo in cui questi gremii non hanno potuto riunirsi, e di un successivo periodo in cui il loro operato è stato ed è fortemente relativizzato dalla legislazione d’emergenza, ossia dalle onnipresenti Disposizioni? Che effetto avrà tutto questo sulla percezione di sé del docente, su quella predisposizione all’autonomia intellettuale e operativa che non solo la legge, ma anche la consuetudine e la tradizione, gli impongono?

E ancora: quale sarà l’impatto di uno slancio riformista sottotraccia che ha visto enormi investimenti in una nuova tecnostruttura, il CERD, che oggi funge da eminenza grigia non solo nei confronti del corpo docente ma anche dei responsabili di sede delle risorse digitali e addirittura delle direzioni di istituto, del Collegio direttori e della Sims? Non voglio apparire come nostalgico di un passato fatto di passeggiate socratiche o di lavagna e gessetto, e nemmeno come un luddista, pregiudizialmente contrario al progresso tecnologico. Al contrario, sono aperto al cambiamento, ma solo se fondato su una solida analisi critica.

Criticamente, quel che occorrerebbe stabilire è in primis se la didattica digitale, nel suo complesso, sia assimilabile ad un aspirapolvere o ad uno smartphone. L’aspirapolvere è tecnologia al servizio dell’uomo, lo smartphone è l’uomo al servizio della tecnologia, che lo controlla in modo occulto e lo condiziona.

Inoltre, il cervello di chi è cresciuto ed è stato educato tramite la narrazione è differente da quello che ha utilizzato il libro, ossia, ogni balzo tecnologico ha influito sulle modalità del vivere sociale e inevitabilmente anche sui metodi didattici e ed educativi. Alcune tecnologie sono neutrali: gli strumenti della DAD (didattica a distanza)  non sembrano esserlo. Ma di tutto questo non sembra esserci una consapevolezza diffusa, che spinga a donne e uomini di scuola ad approfondire, discutere e pronunciarsi in merito in modo critico.

Quando l’immagine, tramite la TV, ha iniziato ad insinuarsi nella didattica abbiamo beneficiato delle analisi di Popper, che ci ha messi in guardia.  La tecnologia non è neutrale: in particolare non è neutrale nei confronti della pedagogia e della didattica. Ma la questione va ben oltre la didattica e investe il concetto di educazione, che nell’ambito digitale viene solitamente declinato nell’accattivante e fuorviante Education. La domanda essenziale da porsi è la seguente: la DAD educa? O si limita a formare? Cosa distingue la formazione dall’educazione? Annosa questione: sintetizzando brutalmente quanto in merito ci suggeriscono grandi menti del passato e del presente come Dewey, Nussbaum, Bauman, Morin, Galimberti, Recalcati e molti altri, la differenza sostanziale sta nella presenza o meno -e nel grado di significatività- della relazione educativa.

A questo proposito non passa certo inosservata l’analogia con la forte e diffusa spinta in ambito accademico verso un futuro post-pandemico votato alla DAD. Ma l’università è chiamata anzitutto a formare, non a educare. Per la scuola di base, la cui missione prioritaria è invece educare tramite l’insegnamento e l’acquisizione del sapere, emerge una questione che è da considerare fondamentale: la relazione educativa a distanza può sostituire quella in presenza?

La mia esperienza mi dice di no; ma potrei sbagliarmi. Nel frattempo vorrei evitare di iniziare una transizione su larga scala verso il digitale, in attesa che si delinei qualche risposta più chiara.

Anche in emergenza, vorrei dunque poter relegare la didattica digitale a strumento didattico fra i tanti, che il docente possa riporre nella sua cassetta degli attrezzi accanto agli altri strumenti. Non vorrei invece che fosse il docente e diventare strumento della DAD.

In conclusione: al momento, a fronte di molte domande dispongo di pochissime risposte, che intendo cercare senza tuttavia lasciare che i miei inevitabili pregiudizi prendano il sopravvento. Resto aperto, attento e ricettivo. Ma finora nessuno mi ha ancora potuto fornire una fondata dimostrazione che, in tutta coscienza, la relazione educativa in presenza possa essere relegata ai bei ricordi del passato.

E intanto il dir. Bertoli afferma e ribadisce – presumibilmente in totale buona fede – che la scuola in remoto non è scuola. Ma l’impostazione politica e istituzionale a cui lui stesso ha dato spinta propulsiva e linfa, lascia intendere il contrario…

Scuola e covid

di Fabio Camponovo, presidente MdS

Quando penso alla scuola in emergenza, in particolare al tempo della sua improvvisa chiusura (metà marzo), ma in fondo anche al momento che ancora stiamo vivendo, la frase che mi torna alla mente è una di quelle che – come si ricorderà – ha inizialmente accompagnato l’esplosione pandemica: “Niente sarà più come prima!”.

Con un pizzico di ironia amara dico che quella frase si è dimostrata vera, poiché tutto è stato, è, e forse purtroppo sarà, “peggio di prima”.

Mi riferisco, in estrema sintesi a cinque aspetti che poi svilupperò brevemente:

  • alla condizione del docente,
  • al carattere equo ed inclusivo della scuola ticinese,
  • alle forme partecipative e alla condivisione riflessiva di ciò che abbiamo vissuto,
  • alle nuove forme della mediazione didattica,
  • al senso profondo dell’istituzione scolastica.

L’insegnante e il suo lavoro

L’emergenza ha determinato un chiaro peggioramento delle condizioni lavorative del docente. Mi riferisco a diversi fattori, per esempio all’aumento importante del carico di lavoro, con una disponibilità generosa alla reinvenzione progettuale delle lezioni,  alla trasposizione informatica dei materiali didattici,  agli orari di lavoro flessibili, all’impegno per mantenere contatti in remoto con allievi, famiglie, colleghi. Ma penso anche alla forzata solitudine domestica (dopo anni di celebrazione della collaborazione, della co-conduzione, della condivisione), alla messa a disposizione gratuita della dotazione informatica personale, dei privati collegamenti/abbonamenti alla rete internet, al fatto di avere accettato di portarsi dentro casa il lavoro d’aula ecc.

Potrebbero sembrare disponibilità scontate, quasi insite nel carattere sociale della professione stessa, che tuttavia è, e rimane, un lavoro, non una missione. Sono aspetti sui quali  sarebbe opportuno avviare una riflessione seria in sede sindacale. Infatti un conto è elogiare l’impegno e la creatività degli insegnanti (come ha fatto il nostro Dipartimento) e un altro è prendere atto di un oggettivo aggravio lavorativo e ragionare sulle ricadute possibili sulla qualità dell’insegnamento.

Bisogna essere particolarmente attenti per evitare la silenziosa (e implicita) accettazione di nuove condizioni di lavoro sulle quali potrebbe essere difficile tornare indietro.

Equità e inclusione

Che cosa ci ha detto l’esperienza della didattica a distanza sul piano di qualità inclusive celebrate nella scuola dell’obbligo ticinese? Ci ha rivelato in tutta la sua crudezza quanto fondamentale possa essere quella che i semiologi chiamano la prossemica, cioè – con riferimento alle situazioni di apprendimento/insegnamento – l’organizzazione dello spazio formativo, la distanza anche simbolica che l’individuo frappone tra sé e gli altri e tra sé e gli oggetti di studio. Quando non esiste possibilità di una condivisione fisica dei contesti d’apprendimento, quando viene meno la possibilità di un rapporto empatico tra insegnante e allievi, quando si deve far conto, per lo studio, sulla responsabilità famigliare e individuale, l’effetto pedagogico è doloroso: le differenze socioculturali si manifestano in maniera pernicios e i deboli diventano ancora più deboli, gli ultimi diventano – mi si passi l’espressione – ancora più ultimi.

Insomma, paradossalmente la scuola a distanza (e mi azzarderei anche a dire la didattica digitale) ha contraddetto un principio di legge (LdS, art.2) secondo il quale la scuola si prefigge “di correggere gli scompensi socio-culturali e di ridurre gli ostacoli che pregiudicano la formazione degli allievi”.

Su questo mi pare siamo tutti d’accordo, DECS compreso. Ciò che però sorprende è il fatto che le nostre autorità non abbiano preso nessuna misura concreta per almeno ridurre questi effetti indesiderati e inutilmente cercheremmo traccia di una preoccupazione di questo tipo negli scenari (1,2 o 3) disegnati dal Dipartimento per i mesi a venire.

Clima professionale e partecipazione attiva e riflessiva alle scelte di politica scolastica

L’emergenza ha determinato un vissuto psicologico particolare, fortemente condizionato dall’incertezza e da forme di ansia. Spesso confrontati con frequenti contraddizioni (presenti anche nella divulgazione scientifica di fronte a un virus totalmente sconosciuto), abbiamo visto generarsi uno stato di tensione che può avere effetti negativi sulla qualità del rapporto educativo. Questo accade, per di più, in una professione che fa della relazione, del contatto umano, dello scambio sociale, il pilastro portante del suo statuto fondativo.

È una preoccupazione che collego (eppure nessuno ne parla!) anche all’attuale scuola in presenza, dove le misure di prevenzione, l’obbligo della mascherina, il rischio del contagio, le classi e/o gli allievi in quarantena… evidentemente condizionano in maniera pesante l’approccio didattico. Aumenta lo stress e certe forme tradizionali della relazione (girare tra i banchi, avvicinarsi all’allievo in difficoltà, fermarsi sul foglio di lavoro di uno studente, stimolare il lavoro di gruppo ecc.) ne risentono pesantemente.

I condizionamenti posti alle scelte didattiche  durante il confinamento sono stati forti e non solo per la necessità della mediazione tecnologica. Gli indirizzi pedagogici sono stati impartiti, tramite direttive, per lo più dal CERDD, cioè sostanzialmente da esperti informatici e aspiranti esperti di didattica digitale (dunque da persone che, necessariamente, per formazione e competenze, sono attente più ai mezzi che ai contenuti). Significativo è il fatto che, in quella lunga fase della chiusura, siano stati ignorati gli esperti disciplinari e si sia scientemente mortificata l’autonomia didattica del docente.

Quanto alle forme partecipative e di condivisione riflessiva direi che non ci si è fatti problema nell’ignorare sia il parere degli insegnanti (e dei loro Collegi) sia la necessità di fermarsi a riflettere insieme. Le possibilità partecipative – come forse è anche normale di fronte all’emergenza – sono state ridotte o mal sopportate. Ricordo l’atteggiamento della direzione del DECS nei confronti sia del Collegio dei direttori e del Collegio degli esperti della scuola media, per non parlare poi dei Collegi dei docenti (mai neppure consultati!). Si sono prese decisioni importanti senza coinvolgimento alcuno (pensate, nelle SMS alla cancellazione degli esami di maturità o all’approvazione della nuova griglia oraria liceale).

Abbiamo visto affermarsi un modello purtroppo molto caro all’attuale compagine dirigenziale del DECS. Il modello della trasmissione di decisioni dall’alto tramite disposizioni e, nel migliore dei casi, quello subdolo di pseudo-consultazioni con pochi eletti (a loro volta poco rappresentativi): occasioni funzionali tuttalpiù alla comunicazione di decisioni già prese e nelle quali – complice anche la tensione – non si è nascosto il fastidio per l’apertura di un confronto di idee.

Di fatto il Covid 19 ha accentuato l’ansia di controllo e di normalizzazione nonché la convinzione che l’insegnante sia soprattutto una risorsa didattica esecutiva (una sorta di “impiegato didattico”).

È stato (ed è tuttora) un contesto infelice, che però non stupisce. Il direttore del Dipartimento, in un recente dibattito televisivo, stuzzicato dal moderatore sul possibile coinvolgimento degli insegnanti nei processi di riforma ha reagito, con espressione un po’ colorita e un po’ stizzita, affermando di  “averne piene le tasche di queste cose”!

Mediazione didattica

Dobbiamo allo sviluppo tecnologico se bene o male abbiamo potuto dare continuità alla scuola nel periodo della chiusura degli istituti (non tanto dal punto di vista didattico, ma almeno sul piano umano, del contatto, della relazione fra i ragazzi e i loro insegnanti). Immaginiamo, anche solo per un momento che cosa sarebbe accaduto se non avessimo avuto a disposizione smartphone e computer.

Ci sono però un paio di aspetti sui quali mi permetto di richiamare l’attenzione.

Il primo è quello relativo all’auspicata generalizzazione della mediazione didattica tecnologicamente assistita, cioè alla più volte decantata integrazione delle nuove tecnologie nell’insegnamento. C’è in questo caso un’enfasi celebrativa un po’ stucchevole, che mira ad associare la qualità e l’efficacia dell’insegnamento con lo sviluppo integrato delle tecnologie. Leggo, per esempio, nel capitolo dedicato alla didattica a distanza contenuto nel rapporto dell’indagine DFA “A scuola in Ticino durante la pandemia di Covid 19”, la frase seguente: “L’emergenza sanitaria ha posto anche la scuola ticinese in un flusso di virtuosa accelerazione” (p. 28). Perbacco! Quasi che il digitale, indipendentemente dagli esiti formativi, sia virtù a prescindere.

Sarebbe un po’ come se – mi si scusi il parallelismo – dicessimo che la qualità dell’informazione è virtuosa da quando progressivamente si trasferisce su piattaforme informatiche. Modificare il rapporto dell’utente (nel nostro caso dello studente) con le fonti informative e conoscitive non è di certo garanzia di un valore aggiunto.

Il secondo aspetto è relativo alla pressoché totale assenza di riflessione su quanto la mediazione didattica possa influenzare i processi cognitivi e le forme di elaborazione del pensiero. Credo risalga agli anni ’60 del secolo scorso la celeberrima affermazione di Marshall McLuhan secondo la quale il mezzo è messaggio. In altre parole, la mediazione digitale non è mai neutra, influenza il modo con il quale processiamo informazione e conoscenza, strutturiamo il pensiero e costruiamo apprendimento.

Bisognerebbe almeno essere cauti nella generalizzazione di forme di didattica digitale. Il rapporto tra strutture linguistiche e strutture mentali,  tra linguaggi e processi cognitivi, tra codificazione del messaggio formativo e sviluppo dell’apprendimento dovrebbe essere un tema centrale nella riflessione scolastica. Ma in Ticino di questa riflessione non si trova traccia.

Il senso dell’istituzione scolastica

L’emergenza Covid ha infine proposto all’attenzione  di chi segue la scuola il tema della assoluta centralità dell’educazione in una società che si vuole democratica. È stata un’occasione preziosa – a mio parere – per interrogarci sul senso della scuola e sulla sua identità formativa.

Negli ultimi dieci-quindici anni di fatto si è concentrata l’attenzione quasi esclusivamente sulla sua organizzazione strutturale e sulle forme didattiche (HarmoS, ScV, attività laboratoriali, nuovi piani di studio con il corredo tecnico-ingegneristico di situazioni problema, format, approcci protocollari, processi, ecc. ecc.). Tutte cose importanti, sia chiaro, anche se ora occorrerebbe aprire, senza indugi,  una stagione nuova nella quale interrogarsi sui contenuti e sul senso.

Quale scuola vogliamo?

Formulo tre richieste semplici ma impegnative:

  1. Non dovremmo approfondire il tema dei bisogni formativi delle generazioni del terzo millennio?
  2. Non sarebbe opportuno definire delle essenzialità formative e concentrare l’attenzione su queste evitando di fare di tutto e di più senza però raggiungere una solida qualità culturale e intellettuale?
  3. Non sarebbe tempo di ragionare – accanto alle mansioni pedagogico-didattiche – alla riqualifica culturale (in senso lato) dei maestri, del loro statuto e del loro lavoro?