Pubblichiamo l’intervento che Lina Bertola ha tenuto in occasione del convegno organizzato dalla rivista Verifiche il 20 novembre scorso per celebrare il suo 50.esimo anno di vita.
Gli atti della giornata saranno pubblicati sul numero di gennaio della rivista. Invitiamo tutti e tutte a sostenere Verifiche: è possibile abbonarsi contattando la redazione.
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Al titolo di questo mio intervento vorrei aggiungere un sottotitolo. Un sottotitolo che possa suggerire da dove, e verso dove, a me sembra in cammino la figura del Maestro.
Quo vadis Maestro? Da un luogo originario, forse, ad una possibile deriva, chissà?
Da un sentimento di appartenenza, vissuto innanzitutto come appartenenza a sé stesso, come fedeltà al proprio vissuto, come intima adesione al proprio sé. Da questo sentimento della propria interiorità, per cui un maestro si sente maestro, al profilo degli insegnanti, che racconta invece un maestro pensato, descritto e misurato nel suo io esteriore, nelle sue attitudini, nelle competenze, nei comportamenti. Dal sé intimo ad una fenomenologia di atteggiamenti corretti, in nome dei quali può essere correttamente chiamato maestro, e in nome dei quali può – correttamente- chiamarsi maestro.
Andrei oltre: dalla vocazione al codice etico. Vocazione può anche sembrare una parola ingombrante, che può evocare orizzonti metafisici, o addirittura religiosi. Ma vocazione significa semplicemente richiamo, invito, disposizione, orientamento verso qualcosa. Parlare della vocazione del maestro, senza troppe reticenze, vuole essere solo una sottolineatura di quella presenza a sé stesso di ogni soggetto a partire da cui una persona sceglie questa professione. Anche l’idea che “maestri non si nasce ma si diventa” va intesa in questo stesso senso, e non in contrapposizione al tema della vocazione, come qualcuno forse potrebbe pensare. Perché infatti maestri lo si diventa, appunto, diventando ciò che si è. A partire da sé stessi, dal proprio daimon.
Parlare di vocazione mi aiuta a segnalare meglio il profondo mutamento nella percezione dell’identità dei maestri che emerge da questo proliferare di fenomenologie dei comportamenti corretti: i cosiddetti codici etici, detti più garbatamente profili degli insegnanti, che dall’esterno tendono a legittimare, e forse anche a plasmare, l’identità dei maestri. Pur se libere da approcci normativi, pur nell’intenzione di offrire e valorizzare la rappresentazione pubblica della figura degli insegnanti, a me sembrano derive preoccupanti di una politica scolastica molto infragilita. Una politica scolastica che, per migliorare la scuola, per garantirne il valore, si preoccupa soprattutto di esibire le immagini di un mondo (il mondo della scuola) che non sa più riconoscersi nella sua essenza.
Anche “essenza” può apparire parola sospetta, ma qui la uso solo nel suo significato epistemologico: l’essenza di una cosa è ciò per cui quella cosa è quello che è. Parola impegnativa “essenza”: penso però che mantenga la sua forza, proprio in rapporto alla realtà del mondo virtuale. Perché, come è stato osservato da diversi studiosi, nel mondo virtuale, la realtà è privata della sua sostanza, dello zoccolo duro e resistente del reale.
Ma la fragilità di una politica scolastica incapace di confrontarsi con lo zoccolo duro e resistente della realtà scuola, è pur sempre un volto, un’espressione della politica, e la politica, come ben sappiamo, dipende dall’economia, la quale a sua volta dipende sempre più dalla tecnologia. Insomma: questo cambiamento nella percezione dell’identità dell’insegnante, non solo da parte della società ma alla fine anche da parte degli stessi insegnanti, questo slittamento di senso da ciò che appartiene al vissuto del soggetto a ciò che viene esibito fuori, è solo la punta dell’iceberg di profonde trasformazioni culturali del nostro tempo.
Punta dell’iceberg è anche metafora triste, che potrebbe insinuare disincanto e arrendevolezza nei confronti dell’esistente. Potrebbe insinuare che quel luogo di resistenza e di progettualità, che è, nella sua essenza, la scuola dei maestri, è oggi costretto a navigare a vista, senza più la forza di orientare la rotta.
In verità, una visione molto, molto addomesticata della progettualità della scuola la possiamo incontrare negli entusiasmi innovativi legati all’uso didattico delle nuove tecnologie. Ma si tratta di una progettualità strumentale, funzionale alle richieste della società. Una progettualità che alla fine confligge, un po’ perversamente, con la valorizzazione della figura del maestro. E questo perché la figura del maestro rischia di dissolversi sullo sfondo dell’arredo tecnologico delle aule su cui si concentrano le sirene più attuali della pedagogia e della didattica, con le loro visioni di un’acquisizione circolare del sapere.
Chi mi conosce sa che non è nelle mie corde un approccio nostalgico o apocalittico alla realtà. Altrimenti non sarei qui, ancora oggi, a dialogare con voi. Continuo a pensare che la modernità sia un processo incompiuto, e che sia comunque un punto di non ritorno. Per questo continuo a pensare che l’illuminismo dei valori laici, che ha saputo nutrire di tante energie e di tante speranze l’educazione, l’illuminismo della valorizzazione dell’individuo, prima delle derive individualistiche, conservi ancora la possibilità di resistere. Resistere alle spinte antieducative del nostro tempo.
Anche se oggi sospetto, con una certa preoccupazione, che anche ciò che stiamo vivendo possa diventare (e forse già lo è) un punto di non ritorno. C’è nell’aria qualcosa che mi vien da descrivere come un esilio: l’esilio del sentimento di appartenenza a noi stessi, che non riguarda solo gli insegnanti, ma che ci riguarda tutti, perché tutti siamo in viaggio verso noi stessi. Se questa chiave di lettura del presente ha un senso, dobbiamo cercare di capire le trasformazioni culturali in atto. Provare ad intercettarle, nelle loro molteplici manifestazioni, per cercare di contrastare una possibile perdita di senso, non solo per l’esserci dei maestri, ma in generale per il nostro vivere e convivere. È necessario capire, per resistere all’insignificanza, che non è tanto perdita del senso delle cose, quanto piuttosto perdita del bisogno di ricercarlo, lasciandolo solo sopravvivere in ostaggio alle logiche del mercato, alle sue logiche autoreferenziali.
Ecco dunque qualche breve affondo, a volo di mosca, su alcune forme del pensare che a me paiono nutrire e raccontare la cultura del nostro tempo. Forme del pensare dentro cui la realtà si racconta e dentro cui siamo invitati a pensarla. Forme del pensare che si intrecciano tra loro e a cui è possibile ricondurre anche la trasformazione dell’identità dell’insegnante e soprattutto la difficoltà ad affermare il valore della figura del maestro.
La cultura della tecnica: quella della civiltà della tecnica è una storia che viene da lontano: potremmo risalire fino alla rivoluzione scientifica del Seicento, all’oggettivazione progressiva del mondo. Il corpo oggetto di cartesiana memoria e l’idea baconiana di una natura divenuta risorsa da sfruttare, imitandola con il sapere tecnico, possono essere considerate le prime forme di perdita del sentimento di appartenenza.
Il sapere inteso come potere di dominio sul mondo ha percorso un lungo cammino e oggi mostra, con i linguaggi della tecnologia, la sua pervasiva presenza in ogni risvolto del vivere e del convivere. Tralascio di elencare i vantaggi arrecati dallo sviluppo tecnologico, soprattutto sulle condizioni materiali della nostra vita, e mi soffermo invece, come anticipato, su alcune categorie del pensiero dentro cui siamo in qualche modo costretti a pensare l’esistente.
Innanzitutto l’idea di progresso, associata allo sviluppo tecnologico. L’idea di un progresso tecnologico ci abita come un mantra. Di fatto però si tratta di un grande inganno. E questo perché il progresso ha a che vedere con i valori, con le finalità della vita, mentre lo sviluppo tecnologico non è che un continuo potenziamento autoreferenziale, senza finalità fuori da sé stesso. In questo meccanismo autoreferenziale, come ben sappiamo, i mezzi sono diventati i fini: ciò ha comportato ricadute devastanti su molti aspetti dell’esistenza e anche sull’identità dell’insegnante e sul senso della scuola di cui il maestro è, o dovrebbe essere, protagonista.
L’accelerazione di una visione utilitaristica del vivere, che l’orizzonte di senso del cosiddetto progresso tecnologico veicola con forza, riguarda anche la percezione della scuola e dei saperi. La cosiddetta civiltà della conoscenza diventa economia della conoscenza. Le conoscenze, merci di scambio con un valore di mercato. Gli allievi, clienti che acquisiscono crediti. E il Maestro?
Come accennavo prima, rischia di finire sullo sfondo dell’arredo tecnologico. Quando i mezzi si travestono da finalità educative, e quando l’innovazione tecnologica diventa quasi la prima preoccupazione della politica scolastica, lo spazio del progetto, di quel progetto di umanità che appartiene alla figura del maestro, non può che indebolirsi.
E in una visione strumentale e utilitaristica del sapere (le competenze) rischia di perdersi un grande valore di cui è portatore l’esserci del maestro. Il valore intrinseco, fine in sé stesso, dell’esperienza della conoscenza, della sua gratuità: comprensione, riflessione, scrittura nell’anima. Ecco allora che il maestro si trasforma in formatore, animatore, consigliere: formule che fanno un po’ troppo pensare alla consulenza alla clientela.
Un’altra categoria del pensiero veicolata dallo sviluppo tecnologico riguarda la percezione del tempo che valorizza l’attualità. Viviamo il mondo in tempo reale. Ma il tempo reale è un tempo che inghiotte il tempo, lo annulla dentro un presente assoluto. In ogni epoca il significato del vivere è stato pensato dentro forme di temporalità. Il tempo ciclico degli antichi, il tempo della trascendenza delle religioni, il tempo del progresso della modernità. Oggi stiamo soffocando questa percezione del tempo nell’immobilità di un presente che ripete sé stesso per non passare, per non divenire passato. Un presente che nega il passato e inghiotte il futuro.
Al valore dell’attualità è legata l’idea dell’innovazione: idea che promette e illude di muoversi velocemente nel tempo, ma che in realtà il tempo lo annulla, perché il futuro è risucchiato in un presente che si rinnova per non passare. In questo presente assoluto il tempo che rischiamo di congedare è il tempo dell’anima: il sentimento dell’interiorità.
Questa perdita del sentimento di appartenenza, che ho voluto indicare come possibile chiave di lettura del presente, si manifesta, come detto in molti risvolti del vivere e convivere.
E tra questi risvolti, diciamo allora addio anche al maestro che è figura del tempo e che ha altre parole per dire il presente. Il maestro è la voce del passato che nutre il presente e apre al futuro. E “il presente del passato e il presente del futuro”, per dirla con Agostino, è la forza dell’inattualità, di ciò che non si consuma nell’attimo, di ciò che permette una distanza.
Altro si potrebbe aggiungere sugli effetti della civiltà della tecnica sul corpo senziente, sul sentire, su quella fisicità della relazione maestro allievo, oggi a rischio nel mondo virtuale . Altro si potrebbe aggiungere sulla distanza dei nostri codici etici degli insegnanti dagli archetipi del maestro che hanno nutrito la nostra cultura.
Il primo archetipo è, come ben sappiamo, Socrate. Socrate è “il genio del cuore”, scriveva Nietzsche, “perché sa come discendere nella profondità di ogni anima… cogliervi tesori nascosti e dimenticati… la goccia di bontà… dal cui tocco tutti vengono arricchiti… arricchiti in sé stessi… riempiti di speranze ancora senza nome”.
Vorrei concludere mettendo l’accento su un altro aspetto che caratterizza le forme del nostro pensare e che ha molto a che fare, ancora una volta, con la figura del maestro. Mi riferisco alla cultura dei regolamenti. Mi riferisco alla riduzione dell’etica alla deontologia.
Oggi assistiamo ad un evidente slittamento della ricerca del senso del nostro agire dal suo intrinseco valore alla sua correttezza in base a regole stabilite (la deontologia professionale, appunto).
In verità attorno alla parola “etica” c’è un po’ di confusione. Tutti parlano di etica, dall’etica dello sport, all’etica dei camici bianchi, all’etica delle imprese… Ma in queste rappresentazioni dell’etica quasi sempre ci si riferisce a regole di comportamento. A regolamenti che stabiliscono la correttezza dei nostri comportamenti. Così, un’azione è ritenuta buona perché corretta, non corretta perché buona.
La differenza non è trascurabile. Siamo alla superficie del valore, lasciamo sullo sfondo il bene, non certo il bene inteso come certezza, come dogma, ma come idea limite, come possibile approdo del nostro cammino.
L’esperienza del valore è qualcosa di più profondo del comportamento corretto in base a regolamenti. L’etica riguarda proprio l’esperienza del valore che abita sempre il nostro vissuto, in ogni situazione, anche se magari non ce ne accorgiamo. Io sto parlando e voi gentilmente mi ascoltate, riflettete forse su quello che vi racconto, ma nello stesso tempo state valutando. Valutate: è noiosa, oppure dice cose interessanti, giuste, sbagliate… E prendete posizione: sono d’accordo, non sono d’accordo….
Questa esperienza del valore che attraversa sempre, magari silenziosa, il nostro vissuto, mi permette di dire che l’etica nasce dentro di noi, nella nostra dimora interiore (oikos). Questa esperienza intima del valore è anche la premessa per poter entrare in contatto con i valori che appartengono ad una comunità. La premessa per interiorizzarli, per farli propri, per rispettarli, ma anche ovviamente per modificarli quando fosse necessario.
Argomenti intrecciati, dicevo all’inizio. E infatti le forme del pensare che ho cercato di illustrare, e in particolare le gabbie utilitaristiche dentro cui pensiamo, confliggono con l’etica intesa come esperienza del valore, che non ha nulla a che fare con l’utilità. Il valore trova in sé stesso le sue ragioni, non è mezzo per qualcos’altro: devo perché devo!!
Come ci ricorda Kant, se compio un’azione per un altro scopo, ad esempio se preparo bene le lezioni per rispondere alle famose esigenze del codice etico, faccio certamente qualcosa di buono, ma l’etica non c’entra perché questo mio agire non è di per sé un fine, non trattiene il suo valore. E soprattutto, non è espressione della mia intima verità.
La cultura dei regolamenti, che ci invita ad esibire le nostre vite professionali con comportamenti corretti, è un altro modo per dire quell’esilio del sentimento di appartenenza a noi stessi. Nella deontologia professionale risuona, in qualche modo, la fragilità di identità frammentarie con cui navighiamo un po’ tutti sulla superficie del tempo.
Mi rendo conto che in questo panorama poco incoraggiante diventa difficile trovare uno spiraglio di senso in cui coltivare, nonostante tutto, l’esserci del maestro. Alla fine penso che una grande risorsa stia nella relazione con gli allievi. Quando chiudo la porta dell’aula, nella fisicità di un sentire condiviso, nell’intimità di una relazione educativa, può essere che la bellezza del nostro lavoro ci parli ancora. Lasciatemelo dire una volta ancora: se insegniamo qualcosa insegniamo quello che siamo. E ciò che resta ai nostri allievi non sono tanto le pure conoscenze, ma la figura di un maestro che continua a farle vivere in loro.
Lina Bertola