Il presente documento è stato approvato dall’Assemblea del Movimento della Scuola del 15 marzo 2017 e si configura come il contributo che la nostra associazione dà nell’ambito della consultazione apertasi sulla cruciale proposta di riforma denominata “La scuola che verrà”.
Premessa
Da qualche anno l’insegnante ticinese è confrontato con un fervore di iniziative volte al cambiamento, alla trasformazione e alla ridefinizione del suo ruolo e della scuola in cui insegna. Dopo l’approvazione del concordato Harmos sono infatti seguite importanti proposte di riforma e modifiche di legge. Ricordiamo almeno (sull’arco di due-tre anni):
- il Profilo e compiti istituzionali dell’insegnante della scuola ticinese del novembre 2014;
- la prima stesura del progetto di riforma della scuola dell’obbligo La scuola che verrà. Idee per una riforma tra continuità e innovazione del dicembre 2014;
- la nuova Legge sulla formazione continua dei docenti, entrata in vigore il 1° agosto 2015, con il relativo regolamento e i materiali per l’attuazione dei dispositivi che essi prevedono (in sostituzione della precedente ‘Legge sull’aggiornamento dei docenti’);
- il nuovo Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese dell’agosto 2015 (diffuso ad anno scolastico già iniziato e non ancora approvato in via definitiva);
- la seconda stesura de La scuola che verrà. Proposte per una riforma tra continuità e innovazione dell’aprile 2016;
- la revisione totale della Legge sugli stipendi degli impiegati dello Stato e dei docenti, approvata dal parlamento il 23 gennaio 2017.
Occorre forse ricordare – e lo diciamo con dispiacere – che nessuno di questi atti è stato accolto con entusiasmo dagli insegnanti stessi, non di rado tenuti a margine dei processi di elaborazione dei testi.
Il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport ha per lo più preferito gestire questi atti con procedure interne o tramite gruppi di lavoro designati ad hoc ma privi di reale rappresentatività del ‘corpo docenti’.
Il Movimento della Scuola risponde qui alla consultazione indetta dall’autorità scolastica sul progetto di riforma “La scuola che verrà”. Lo fa con l’intenzione di dare un contributo al dibattito che necessariamente dovrà seguire la consultazione stessa e nella speranza che le posizioni espresse possano stimolare una riflessione approfondita su un progetto capace di modificare anche sostanzialmente il profilo della scuola dell’obbligo ticinese.
1. Le ragioni della riforma
La pubblicazione del secondo fascicolo intitolato “La scuola che verrà” (DS/DECS 2016, d’ora in avanti siglato in ScV) conferma sostanzialmente l’impostazione della riforma che già era stata annunciata nella prima fase del progetto. La proposta che si avanza non è un’opera di maquillage, ma è a tutti gli effetti un tentativo di superamento dell’attuale fisionomia della scuola dell’obbligo ticinese: un tentativo di carattere strutturale, professionale, pedagogico e persino ideologico. Forse non a caso in questi mesi gli autori stessi hanno parlato, non senza enfasi autocelebrativa, con riferimento ai cambiamenti che attenderebbero la scuola nel caso in cui la riforma venisse approvata, di “rivoluzione copernicana”, di un mutamento di rotta paragonabile a quello vissuto con la nascita della scuola media unica nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso. Si propone infatti un modello di scuola e di formazione che si allontana notevolmente dall’assetto attuale della scuola pubblica e mette implicitamente in discussione gli elementi portanti che l’hanno caratterizzata fino a oggi.
Di sicuro le ragioni per sottoporre a un esame critico ad ampio raggio gli orientamenti che regolano il nostro sistema scolastico non mancano. Nei quarant’anni trascorsi dal varo della scuola media unica, molte situazioni interne ed esterne alla scuola sono profondamente mutate. Si pensi anche solo ai seguenti tre temi, di non poco conto: lo sviluppo sociale, economico e culturale ha posto viepiù nuove richieste all’istituzione scolastica e determinato bisogni formativi in parte diversi rispetto a quelli degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso; si è modificata la percezione sociale e culturale dell’istituzione scolastica e il rapporto con la conoscenza e le discipline di studio (anche a causa della presenza di nuove e più allettanti agenzie formative, dell’impressionante sviluppo delle nuove tecnologie, ma non solo); il mestiere dell’insegnante, e il suo statuto professionale, ha conosciuto mutamenti così importanti da essere ormai considerato da più parti alla stregua di una professione in crisi.
L’apertura di una fase di dibattito paragonabile a quella che vide la nascita della scuola media, cioè di una stagione di riflessione complessiva sui problemi che attanagliano la scuola accompagnata da proposte di riforma atte ad affrontarli, non può dunque che essere la benvenuta. Soprattutto se accompagnata da vero confronto sulla sostanza delle riforme, sul significato storico delle stesse, sul valore intrinseco del “fare scuola”.
Ma in questi casi, da quali questioni, da quali interrogativi occorre partire per stimolare il confronto pubblico e quindi, se fosse il caso, mettere in discussione gli assetti attualmente in vigore? A nostro parere – per dare senso ai cambiamenti, farne cogliere le ragioni, ma anche per provare a coinvolgere attivamente le componenti scolastiche, i docenti in primis – si tratterebbe di cominciare con il chiedersi che cosa è oggi necessario mettere al centro dell’esperienza educativa (cosa insegnare/apprendere?) e interrogarsi criticamente sul significato da assegnare oggi al “fare scuola”. Quale ruolo assegnare oggi all’istituzione scolastica, quali finalità culturali, civili e pedagogiche attribuirle (perché insegnare/apprendere, per rispondere a quali bisogni)? Con ogni evidenza, non si progetta una riforma senza prima proporre un bilancio critico delle condizioni presenti: che cosa non ha funzionato o che cosa non funziona più dell’attuale sistema scolastico? la sua organizzazione pedagogica e didattica? il senso del suo insegnamento? la sua valenza culturale? Quali dati o indicatori scientifici dimostrano un insufficiente funzionamento dell’istituzione scuola e ne evidenziano limiti e difetti?
Inutilmente tuttavia il lettore cercherebbe, nelle pagine del progetto “La Scuola che verrà”, non tanto una risposta quanto una sensibilità interrogativa esplicita su questi temi. Ed è questo indubbiamente uno dei primi aspetti metodologici francamente sconcertanti del progetto dipartimentale.
Eppure già in occasione della prima consultazione qualche autorevole intervento apparso sulla stampa aveva cercato di indicare questa via, sottolineando la fragilità di altre strade. Ad esempio, Lina Bertola su La Regione del 25 marzo 2015 scriveva: “La grande attenzione rivolta dal progetto al come, alle modalità di attuazione dell’insegnamento, scavalcando di fatto il tema prioritario del che cosa insegnare è in un certo senso espressione di un clima culturale preoccupante. […] L’utilitarismo esasperato [proprio del tempo presente] valorizza i mezzi per i mezzi, in un continuo riprodursi identico e autoreferenziale, senza più riconoscere, sotto la cifra ingannevole dell’innovazione, alcun fine fuori di sé.” Le parole di Bertola non sembra siano state prese granché in considerazione.
2. La natura della riforma
Nell’introduzione al secondo fascicolo si esplicitano le finalità del progetto di riforma, richiamate poi in più punti nelle pagine successive. Attestando una non meglio esplicitata “esigenza diffusa di intervenire sullo stato attuale della scuola dell’obbligo” (ScV, p.5) si parla della necessità di migliorare i risultati globali, di creare migliori condizioni di insegnamento e di apprendimento, di innovare le pratiche didattiche, ecc., insomma in sostanza si sottolinea il fatto che lo scopo principale della riforma è quello di aumentare il grado di efficienza della scuola, la sua qualità. È un obiettivo nobile di per sé, che nessuno contesterebbe, se non per il fatto che, a ben vedere, rimane relativo ai meccanismi di funzionamento del sistema, al ‘come’, e lascia inevasa la domanda che sorge spontanea: la scuola deve essere più efficiente e di qualità in relazione a che cosa, a quali finalità?
A sostegno della necessità di una riforma atta a migliorare l’efficienza scolastica, negli ultimi anni si è fatto spesso riferimento ai risultati dei test PISA, che sembravano offrire un quadro più o meno critico della capacità della scuola ticinese di reggere a livello svizzero il confronto con le situazioni d’eccellenza. Le notizie riguardanti i risultati del 2015, che finalmente si basano su campioni di studenti paragonabili, smentiscono però questa impressione: in tutt’e tre gli ambiti indagati (scienze, matematica, lettura) i ticinesi hanno ottenuto un punteggio superiore sia alla media OCSE, sia a quella svizzera[1]. La qualità della nostra istruzione è con tutta evidenza buona, a maggior ragione se si considera il fatto che il Ticino, oltre ad avere un sistema scolastico tra i più equi a livello nazionale, ottiene, anno dopo anno, risultati inversamente proporzionali alle relativamente scarse risorse a disposizione della scuola pubblica, situandosi, nel confronto intercantonale, ai vertici per tasso di maturità professionali, maturità liceali e diplomi universitari. L’urgenza di un cambiamento, su questo piano, sembra quindi dover essere drasticamente relativizzata.
Le ragioni delle riforme (si consideri in questo senso anche l’importante investimento di risorse per l’implementazione del nuovo “Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese”, un testo che, vale la pena sottolinearlo, è stato approvato dal Consiglio di Stato senza che mai sia stato posto in consultazione presso gli insegnanti!) sembrano essere dettate in parte dalla “necessità di allinearsi con l’evoluzione del sistema educativo nazionale” (ScV, p. 5) e, in filigrana, anche con le disposizioni proposte dall’OCSE e dall’Unione Europea a tutti i paesi europei[2].
Ha qualcosa di paradossale questa recente infatuazione per una migliore e più intensa corrispondenza del modello ticinese con quello degli altri cantoni svizzeri e degli altri paesi del blocco occidentale. Paradossale non certo perché debba prevalere un’ottica di chiusura, o il rifiuto di un confronto aperto con altri sistemi scolastici, bensì perché a dettare la tendenza (in barba all’orgoglio anche recente di una scuola ammirata e invidiata!) sembra essere un’impalpabile standardizzazione dei modelli educativi, sempre più improntati all’acquisizione di competenze operative e sempre meno incentrati sullo sviluppo intellettuale e culturale della persona.
Non si può negare tuttavia – qualcuno obietterà – che “La scuola che verrà” afferma anche la volontà di mantenere, anzi di rilanciare, alcuni principi definiti “pilastri storici” della scuola ticinese, che, questi sì, parlano del senso di questa istituzione: si tratta dei valori dell’inclusività e dell’equità, figli di un’idea che a sua volta ha segnato in profondità l’attività scolastica. L’idea di un principio emancipatore secondo il quale se messo nelle giuste condizioni ogni bambino o ragazzo è “educabile”.
Questa volontà democratica va salutata positivamente e, se necessario, difesa. È bene però ricordare che quei principi diventarono patrimonio comune del mondo della scuola ticinese in quella temperie politico-culturale che, come si diceva, sfociò nella creazione della scuola media. Erano insomma valori funzionali a grandi propositi ideali, come quelli di democratizzare gli studi superando un modello autoritario ed elitario. Era la convinzione che si trattasse di aumentare il grado di acculturazione della popolazione insistendo sul ruolo potenzialmente emancipatorio dell’accesso alla scuola. Fu proprio sulla base del confronto su questo ordine di questioni che si definirono i termini delle riforme di allora! In questo quadro, era evidente la carica motivazionale alla quale potevano attingere gli insegnanti, a cui si assegnava un mandato educativo carico di significato, un ruolo attivo nei confronti della società: la scuola era vissuta come strumento per combattere gli scompensi socioculturali. Il valore dell’equità (e dell’integrazione) era messo in stretta relazione con la battaglia per l’eguaglianza sociale. Il paragone con quanto avvenne quattro decenni fa dovrebbe far riflettere coloro ai quali in questi mesi è capitato di interrogarsi sullo scarso entusiasmo con cui parti significative del corpo insegnante guardano al progetto “La scuola che verrà”. Ci sembra che questo fatto possa essere dovuto a diverse ragioni: in aggiunta alla sensazione che le nuove proposte non tengano troppo conto dei problemi concreti della scuola, ci pare anche importante sottolineare la diffusa percezione del rischio che esse possano incidere negativamente sulle condizioni di lavoro degli insegnanti. Oltre a ciò non riteniamo però peregrino pensare che tale stato d’animo sia determinato anche dalla mancanza di stimoli di tipo ideale: l’ingegneria didattico-organizzativa, che permea l’attuale proposta, fatica a mobilitare le coscienze.
Il documento è infatti caratterizzato – segno dei tempi – da un forte pragmatismo, che tende ad andare in tutt’altra direzione rispetto alla tensione ideale che alimentò la nascita della scuola media. Il capo del DECS, ad esempio, nella prefazione al fascicolo suggerisce come declinare concretamente i concetti di equità e di inclusività nei seguenti termini: “… non si tratta di appiattire i contenuti dell’impegno scolastico per permettere a chi non ne ha le capacità di accedere a scuole postobbligatorie che non sarà in grado di seguire. Al contrario … [si tratta di] accompagnare bambini e ragazzi là dove le loro qualità personali permettono di arrivare […] facendo fiorire i giovani più capaci e dando comunque un bagaglio sufficientemente solido a quelli che fanno più fatica.”
Le parole del direttore Bertoli suonano decisamente diverse da quelle di Franco Lepori, padre riconosciuto della scuola media, che nel lontano 1964, sulle stesse questioni, era giunto ad affermare: “… se non è possibile situare tutti gli allievi in una situazione relativamente uguale sul piano sociale […], questo deve essere almeno possibile sul piano specifico della scuola. Ciò comporta che i programmi siano uguali per tutti, che tutti siano sottoposti, naturalmente nel limite del possibile, alle stesse sollecitazioni, agli stessi stimoli, intellettuali, pratici o altro, almeno nel periodo più delicato, in cui si stabilisce il valore dell’allievo e si gioca il suo avvenire.”[3]
La differenza è di peso ed evidentemente non può passare inosservata. Da una parte un progetto politico-istituzionale, dall’altra una visione riformista finalizzata a una maggiore personalizzazione dei profili scolastici. Il motore dello stimolo pedagogico e culturale quale diritto ugualitario dell’allievo (Lepori) è ora declinato, nelle parole di Bertoli, in termini di promozione dello sviluppo personale. D’altra parte, come vedremo in seguito, proprio sul concetto di “personalizzazione”[4] si fondano misure di tipo strutturale che se pur escludono “i modelli segregativi orientati alla categorizzazione degli allievi e a un loro raggruppamento in funzione delle capacità” (ScV, p. 12), aprono a importanti differenze curricolari nella scuola dell’obbligo. Non si tratta certamente di demonizzare questa scelta, ma di valutarne attentamente la matrice ideologica e i rischi pedagogici che ne derivano.
3. Gestire l’eterogeneità: personalizzazione, differenziazione e cambiamenti strutturali
La significatività dei due estratti a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza ovviamente non rimanda solo a una diversa carica ideale. Essa parla anche di un’altra questione, di sapore storico e pedagogico. Nei cinquant’anni che separano le due dichiarazioni, la scuola dell’obbligo si è trovata ad affrontare una questione resa via via più complessa dall’evoluzione della società: la difficoltà a gestire – dentro l’orizzonte ideale dell’inclusività – l’eterogeneità costitutiva delle classi che popolano le nostre aule. Per affrontare questo problema irrisolto, la “Scuola che verrà” assume come perno delle sue proposte operative il concetto di “personalizzazione”. È con questo concetto che gli estensori del progetto intendono affrontare il tema dell’eterogeneità (di matrice sociale, cognitiva, culturale, intellettiva) e ne propongono una diversa gestione.
In realtà da tempo gli insegnanti sanno che per poter rendere i processi di apprendimento più efficaci è utile diversificare i percorsi d’insegnamento in funzione delle peculiarità dei discenti. Come si sostiene anche in più passaggi nel fascicolo, da anni nelle nostre aule si applica questa specifica pratica, quella della “differenziazione pedagogica”.[5] Lo si fa ovviamente nel limite delle possibilità offerte dalle condizioni professionali in cui gli insegnanti si trovano a operare. Infatti la strada della differenziazione determina un aumento esponenziale dell’impegno lavorativo ed esige, per essere efficace, la possibilità di operare con gruppi-classe dagli effettivi ridotti. In ogni caso importanti sforzi sono stati compiuti in questi decenni, soprattutto per quel che concerne la trasmissione dei saperi disciplinari, partendo dall’assunto che l’allievo non è un semplice oggetto passivo da inondare di nozioni bensì una persona che in aula deve poter seguire un iter formativo comune ma proposto con modalità e tempi in parte diversi e diversificabili. E in effetti sono presenti, nell’attuale pratica d’insegnamento, i modelli che sottolineano il carattere decisivo della “mediazione didattica”, che hanno un’attenzione particolare per le abilità, per le operazioni cognitive e per gli atteggiamenti da coltivare nel discente. Ciò che importa tuttavia è che l’obiettivo finale resti, per tutti, sempre il medesimo: si differenziano gli approcci per permettere a tutti di raggiungere almeno i traguardi minimi fissati dall’istituzione scolastica.
Il concetto di “personalizzazione” introduce invece una diversa prospettiva di sviluppo e un diverso paradigma pedagogico. Esso infatti non prevede solo l’intervento sui percorsi messi in campo per far raggiungere agli alunni determinati obiettivi minimi, ma tende a valorizzare la possibilità di differenziare proprio questi ultimi in relazione alle caratteristiche del singolo allievo. Spiega Massimo Baldacci che la “personalizzazione indica le strategie didattiche finalizzate a garantire a ogni studente una propria forma di eccellenza cognitiva, attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie potenzialità intellettive. In altre parole, la personalizzazione ha lo scopo di far sì che ognuno sviluppi propri personali talenti”[6]. Un altro esperto della questione – Giorgio Chiosso – precisa che le pratiche di personalizzazione rispondono “all’esigenza di percorsi di apprendimento e di crescita degli allievi che rispettino le differenze individuali in rapporto a interessi, capacità, ritmi e stili cognitivi, attitudini, carattere, inclinazioni, esperienze precedenti di vita e di apprendimento”[7].
Ci si muove qui su un crinale sottile e insidioso. Ci pare legittimo e fondato sollevare un dubbio (che non sembra invece sfiorare gli estensori del progetto): non è che la “personalizzazione” così intesa rischi di tradursi in uno strumento che involontariamente congeli – con l’intento di “rispettarle” – le differenze? Quelle differenze di “interessi”, di “capacità”, di “attitudini”, che in buona misura affondano le loro radici nel contesto sociale e culturale nel quale il bambino o l’adolescente è cresciuto[8]?
Il progetto di riforma, proprio nelle pagine introduttive esplicita il concetto: “la personalizzazione è qui interpretata in un’ottica prevalentemente strutturale, attraverso cioè un’offerta di griglia oraria maggiormente flessibile […] che permetta a ogni allievo di sviluppare caratteristiche personali già presenti …” (ScV, p. 11). Non si indebolisce così l’idea della scuola intesa come canale attraverso cui si offre la possibilità, anche a coloro che per origini sociali sono meno propensi a prevedere per sé una lunga carriera scolastica, di crescere culturalmente (e, per questa via, anche socialmente)?
Philippe Meirieu, forse il più conosciuto fautore della differenziazione pedagogica, ha recentemente messo in guardia proprio da questo pericolo: “Subordonner les apprentissages à des motivations préexistantes [le inclinazioni e gli interessi individuali, ad esempio], c’est entériner les inégalités et renoncer à faire découvrir aux élèves des savoirs mobilisateurs qui pourraient être, pour eux, émancipateurs.”[9]
Il progetto “La scuola che verrà” non sembra invece avere dubbi sulla linea da seguire. Nel fascicolo, si avanza la proposta di offrire fin dalla prima media tre ore di materie opzionali, capaci di orientare le scelte future in base alle diverse aspirazioni degli allievi (ScV, pp. 20-21), e inoltre si accenna alla possibilità – in casi particolari, si sostiene – di adattare persino gli obiettivi dell’insegnamento alle capacità dei discenti (ScV, p. 24)[10]. Si tratta di scelte che collocano questa riforma su un piano di netta frattura con l’impostazione storica della scuola media e non pare dunque infondato individuare qui l’implicita rinuncia agli ideali sintetizzati nelle parole di Franco Lepori prima riportate e così altrettanto chiaramente smentiti da quelle tanto diverse di Bertoli. Diremo qui, a scanso di equivoci, che non si intende però negare le difficoltà attuali della nostra scuola nella gestione di un’eterogeneità (cognitiva, linguistica, sociale e culturale) oggi ancor più presente nelle classi di quanto non fosse fino a qualche decennio fa. Non si intende minimizzare gli esiti ancora insoddisfacenti di un approccio inclusivo e le risultanze di aspirazioni e interessi troppo fortemente debitrici della condizione socio-culturale degli allievi. Gestire l’eterogeneità resta, in una scuola democratica e che punta alle pari opportunità, un problema; un problema che vale però la pena affrontare in una prospettiva diversa da quella di una ‘personalizzazione’ che finisce per segnare pragmaticamente e precocemente l’esito del percorso scolastico.
È questo uno degli aspetti sui quali vorremmo portare l’attenzione e il dibattito pubblico, anche se pochi di coloro che hanno in questi mesi commentato le proposte del DECS si sono soffermati sulla questione. Di fatto si abbandona la prospettiva che è stata alla base della scuola media dal 1974 fino ad oggi e si abdica implicitamente al suo ideale fondativo. È il cosiddetto passaggio dalla ‘democrazia delle opportunità’ (mettere in campo tutte le forze possibili, sulla base dei principi di equità, di integrazione e di impegno contro le discriminazione sociali, per assicurare a ciascun allievo la possibilità di raggiungere obiettivi minimi di formazione) alla ‘democrazia della riuscita’ (permettere a ogni allievo di seguire percorsi in parte diversi e adeguati alle sue attitudini). In nuce, ma neppure troppo velatamente, questo significa accettare che il percorso scolastico certifichi le differenze sociali (magari elegantemente collocate sotto l’etichetta di ‘indoli’) e le congeli.
4. La fantasmagoria delle forme didattiche
La “personalizzazione” a cui si è fatto riferimento si traduce operativamente, nel progetto dipartimentale, in misure di natura strutturale. Lo si dichiara in maniera esplicita a p. 12 del fascicolo: “Le misure di personalizzazione che il progetto di riforma prevede di adottare intervengono su tre aspetti strutturali dell’insegnamento: le forme e gli approcci didattici, la griglia oraria e le opzioni”. Alle scelte opzionali già abbiamo fatto cenno in precedenza. Cerchiamo ora di capire la logica che sottende la moltiplicazione delle forme didattiche (lezioni, laboratori, atelier, settimane progetto) e la disarticolazione della griglia oraria (in distinte sequenze di 5 settimane, intervallate da ‘settimane progetto’, con insegnamenti ‘a blocchi’ per alcune discipline e una diversa organizzazione degli orari settimanali). Di fatto la riforma propone un complesso disegno di ingegneria pedagogico-didattica che coinvolge l’allievo in un continuo rivoluzionamento delle modalità d’insegnamento e della gestione del tempo scolastico.
Non v’è dubbio alcuno circa il fatto che una buona didattica faciliti gli apprendimenti. Dubbi tuttavia sussistono circa la necessità di uno spezzettamento continuo dell’insegnamento (ambizione ricorrente, questa, di certo modo di intendere la pedagogia) e circa la sua reale efficacia per l’allievo. La moltiplicazione dei contenitori e degli approcci didattici rischia infatti di sacrificare la necessaria continuità che caratterizza lo studio disciplinare prediligendo una frammentazione che finisce per disorientare allievi e insegnanti. Sia ben chiaro che non si tratta qui di perorare la causa né di lezioni frontali né di interventi ex cathedra, e neppure – a maggior ragione – di certo nozionismo o di approcci dogmatici propinati con sussiego e perentorietà. Non è questo il punto. Non si tratta nemmeno di contestare l’efficacia di un lavoro didattico con gruppi a effettivi ridotti (previsti per i laboratori e gli atelier) né di mettere in dubbio la significatività di una pedagogia differenziata. Si tratta invece di mettere bene in luce il rischio pernicioso della frammentarietà.
Un ragazzino undicenne si troverebbe infatti confrontato con un’organizzazione della griglia oraria e un’impostazione del curriculum annuale che prevedono “quattro forme didattiche in una prospettiva didattica differenziata: lezioni, laboratori, atelier e settimane o giornate progetto […] concepite come ‘strutture’ nelle quali trovano espressione diverse modalità organizzative (insegnamento a classe intera, con più classi, a gruppi, ecc.) e approcci didattici relativi alla gestione dell’azione didattica (approcci espositivi, dialogici, cooperativi, ecc.)” (ScV, pp. 12-13). In altre parole, un bailamme organizzativo[11] e didattico che sulla carta illustra la volontà di personalizzare e differenziare per consentire l’acquisizione di competenze trasversali e l’approfondimento disciplinare (obiettivi in sé assolutamente condivisibili), ma che nei fatti si traduce in uno straniamento formativo che difficilmente potrà essere ricomposto nella mente dello studente. Temiamo anzi che proprio in una fase delicata dello sviluppo preadolescenziale, quest’offerta strutturale diversificata possa produrre più danni che benefici.
In questo modo l’allievo potrà trovarsi confrontato con addirittura tre figure di riferimento in ambito disciplinare (il docente titolare, il docente di laboratorio e quello dell’atelier), con forte pregiudizio per quella coerenza dell’intervento di chi insegna che è condizione necessaria per rendere efficace l’apprendimento di chi impara. Diventerebbe sempre più complesso e problematico stabilire quale sia il docente principale di riferimento anche in funzione di una valutazione complessiva degli allievi.
Chiunque faccia il docente sa quanto già oggi, nel modello attuale, sia complicato far cogliere al discente il senso di quanto si fa a scuola in termini di continuità tra le diverse attività, in termini di legami concettuali tra un argomento e l’altro, in termini di approfondimento teorico e pratico. Già oggi la tendenza dell’allievo di vivere l’attività scolastica come una sommatoria di attività fini a se stesse, separate le une dalle altre (quindi dotate di scarso senso) è uno dei principali problemi con cui ci si deve confrontare. Con la nuova proposta la questione rischia di assumere dimensioni parossistiche.
Anche il passaggio da una griglia oraria settimanale a un orario che cambia diverse volte durante l’anno pone serie difficoltà sia sul piano organizzativo sia sul piano pedagogico-didattico. Se si considerano la suddivisione in sequenze dell’orario e la moltiplicazione strutturale delle forme didattiche, in aggiunta poi alle cosiddette ‘settimane progetto’, dobbiamo concluderne che la percezione del ragazzo sarà probabilmente quella di una scuola cangiante e disarticolata. Va detto poi che questa organizzazione comporta una importante riduzione delle ore-lezione di materia[12], un aumento significativo di mansioni del docente (che si vedrà per questo riconosciute 4 ore settimanali di lavoro amministrativo – organizzativo – collaborativo), un continuo cambiamento per gli allievi.
Si pensi anche solo al fatto che, come si dice nel progetto in consultazione, esisteranno tre diverse tipologie di materie: “… discipline impartite durante tutto l’anno con ore variabili (dette ‘discipline con continuità con ore variabili’), discipline che hanno pure una continuità durante tutto l’anno ma con ore fisse (dette ‘discipline con continuità con ore fisse’); discipline proposte in un’unica sequenza (dette ‘discipline a blocco’)” (ScV, p.18). È un paragrafo che rende linguisticamente ben percepibile uno scompigliato tentativo di classificazione.
Le giornate progetto (occasioni per affrontare temi di natura interdisciplinare) sono sicuramente interessanti e possono offrire ottimi stimoli di crescita per gli allievi. Tuttavia, prevedere 6.5 settimane, ovvero 30-32 giornate ci sembra non solo eccessivo, sia in relazione alla programmazione delle diverse materie sia in termini organizzativi, ma francamente irrealizzabile visto l’impegno che ciò comporterebbe. Per rendersene conto basterebbe valutare le ore di presenza in sede, di collaborazione tra docenti con orari differenti, di ricerca e di lavoro che già oggi sono necessarie per attivare una o due settimane progetto in ciascun istituto.
5. Una scuola per le competenze
Il termine competenza entra lentamente, e con significati non sempre condivisi, nel mondo della scuola a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso sulla base di un progetto internazionale di ricerca concepito nell’ambito dei lavori condotti dall’OCSE, l’Organizzazione internazionale di cooperazione e sviluppo economico, e noto con l’acronimo DESECO (Definizione Selezione delle Competenze Chiave)[13]. Nel breve volgere di qualche anno, in conseguenza dell’istituzione di prove a livello europeo nell’ambito di PISA[14] e anche della decisione presa dal Parlamento europeo nel 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente[15], i principali Stati europei fanno della competenza il punto di riferimento fondamentale per la stesura di nuovi percorsi scolastici. La Svizzera recepisce queste direttive europee attraverso l’approvazione del piano nazionale HarmoS sull’armonizzazione della scuola obbligatoria del 14 giugno 2007, cui fanno seguito le decisioni concernenti gli obiettivi formativi nazionali espressi in competenze chiave[16]. Sulla base di queste decisioni il Consiglio di Stato del Cantone Ticino approva un nuovo piano di studio che considera requisito fondamentale della sua messa in opera la centralità delle competenze: “Non si tratta più, come nel passato, di un programma d’insegnamento che elencava quali temi e argomenti andavano trattati nei rispettivi settori formativi, bensì di un piano che indica quali competenze e risorse un allievo dovrebbe aver sviluppato al termine delle principali scadenze formative previste. Con il presente Piano di studio, rispetto ai precedenti programmi, si passa da indicazioni su “cosa insegnare” ad indicazioni su “cosa far apprendere”. Le attese formative sono formulate in termini di “cosa l’allievo deve essere in grado di padroneggiare, conoscere, saper-fare” alla fine di un determinato ciclo. La loro formulazione utilizza la forma delle competenze, dove per competenze si intendono le capacità di un allievo di saper affrontare situazioni conosciute o nuove mobilitando un insieme coordinato di saperi e di capacità/abilità con una disponibilità a coinvolgersi cognitivamente ed emotivamente.”[17] Il progetto “La Scuola che verrà” si innesta su questo nuovo piano e propone un’architettura scolastica che si definisce e si articola attorno alle nuove strategie di apprendimento.
Da quanto precede si evince che la competenza mette l’accento sulla costruzione dei saperi e richiede un’intensa partecipazione dell’allievo nell’attività didattica. Integra gli elementi della conoscenza con quelle delle capacità e degli atteggiamenti. In questo modo privilegia il momento dell’azione intesa come capacità di risolvere problemi che diano senso e soddisfazione al discente. È implicita in questa modalità di lavoro la condanna verso un sapere nozionistico e chiuso in se stesso, trasmesso in modo autoritario. Va detto che il modello di scuola autoritario-trasmissivo è da tempo sconfessato sia sul piano della riflessione pedagogica sia nella pratica isitituzionale. In effetti nelle nostre aule è ormai dagli anni Ottanta del secolo scorso che è praticata una didattica tesa a valorizzare la dimensione costruttiva dei saperi per rendere più significativo e quindi più efficace l’apprendimento. Le perplessità nei confronti di una didattica per competenze, oltre che dalla sua natura[18], derivano soprattutto in relazione al ruolo delle conoscenze disciplinari nell’ambito della formazione del discente. Il sistema complessivo delle competenze nella realtà dei fatti emargina il sapere disciplinare, riducendolo a semplice strumento interpretativo della realtà. Essendo le competenze appannaggio esclusivo dei singoli soggetti, l’apprendimento deve avvenire partendo dalla mobilitazione delle loro risorse (sapere, saper fare, atteggiamenti) rovesciando di fatto il rapporto finora esistente tra disciplina e obiettivi.
Nella scuola di oggi gli obiettivi sono interni alle discipline, gli sforzi didattici sono mirati a proporre attività di costruzione della conoscenza per arrivare a comprendere ciò che si sta studiando con lo scopo di rafforzare le proprie conoscenze in modo poi da saperle riutilizzare e interpretare. Con la nuova proposta sono le competenze che definiscono i contenuti, o meglio i referenti disciplinari, in funzione del contesto e della pertinenza con la realtà. Il corpo dei saperi disciplinari rischia di essere smembrato e suddiviso in frammenti di conoscenza in modo da rendere difficile se non impossibile afferrare il senso generale di quanto si sta studiando. Inoltre la centralità del saper fare, cioè dell’aspetto procedurale su quello dichiarativo, impone una percezione della dimensione temporale appiattita sul presente e quella spaziale sull’orizzontalità; la conoscenza è concepita come una progressiva acquisizione di competenze in rete, dove sono deficitari i nessi logici e la sequenzialità dei passaggi nella costruzione del sapere. La percezione di un processo storico di costruzione del sapere è del tutto assente e ciò impedisce la formazione di una consapevolezza della relatività delle conoscenze, oltre che una riflessione sui mutamenti intervenuti.
A essere messa in discussione non è una generica definizione di competenza, ma la rigida applicazione che discende da questa interpretazione pedagogica che pretende di mettere tutte le discipline sullo stesso piano, di prevedere un insegnamento necessariamente basato su situazioni problema, dimenticando le profonde differenze sia epistemologiche sia culturali che esistono tra loro. La riflessione sulla competenza dovrebbe poi distinguere una competenza nella disciplina rispetto a una competenza della disciplina, cioè tra il possesso di abilità specifiche proprie di quella disciplina e la capacità invece di servirsene come strumento di indagine. In ambedue i casi bisogna interrogarsi sulla disciplina, su quali siano le sue caratteristiche, quali siano le pratiche che vale la pena insegnare e apprendere. Ma appare evidente che la competenza della disciplina, cioè di una forma mentis da utilizzare come strumento conoscitivo in grado di interagire con l’ambiente può realizzarsi solamente assumendo un modello epistemologico della disciplina ed evidenziando i nuclei tematici essenziali da insegnare[19]. Come rivela chiaramente Marcel Crahay, titolare della cattedra di scienze dell’educazione all’Università di Ginevra, “la nozione di competenze è una caverna di Ali Baba concettuale nella quale si trovano accatastate una accanto all’altra tutte le correnti teoriche della psicologia, anche quelle tra loro più contrarie… Le conoscenze [le nozioni, diremmo in italiano, ndr] sono necessarie al funzionamento conoscitivo”. Non si può fare a meno dei mattoni per costruire una casa. Bisogna quindi, secondo Crahay, accantonare il concetto di competenze, almeno a livello della scuola dell’obbligo e ritornare ai campi disciplinari[20].
Un altro pericolo insito nella competenza è il rischio di un sapere attento solo al presente e intriso di utilitarismo; da questo punto di vista parole illuminanti arrivano da Philippe Meirieu, uno specialista che certamente non può essere sospettato di partigianeria, “nous devons ensuite, contre le savoir immédiat et utilitaire, contre toutes les dérives de la “pédagogie bancaire” reconquérir le plaisir de l’accès à l’oeuvre. La mission de l’école ne doit pas se réduire à l’acquisition d’une somme de compétences, aussi nécessaires soient-elles, mais elle relève de l’accès à la pensée. Et c’est par la médiation de l’oeuvre artistique, scientifique ou technologique que la pensée se structure et découvre une jouissance qui n’est pas de domination, mais de partage”[21].
L’organizzazione istituzionale prevista dalla “Scuola che verrà”, prevedendo un ampio spazio per la formazione generale e per le competenze trasversali, contribuisce ulteriormente a emarginare le discipline, il che d’altronde è perfettamente in linea con i teorici delle competenze per cui “una volta accertato che le competenze sono un insieme integrato di conoscenze/abilità/attitudini occorre capire se sia ancora possibile parlare di competenze disciplinari oppure se non si può fare altro che parlare di competenze pluridisciplinari tanto più che esse sono multidimensionali”[22]. Le competenze trasversali si presentano come attitudini personali e rinviano alla capacità da parte dell’allievo di prendere coscienza della possibilità di trasferire in altri ambiti concettuali le conoscenze apprese: ma risulta difficile educare alla trasferibilità anche perché “toute compétence est par essence limitée et attachée à un objet ou à une domaine. Elle paraît exclure la transversalité”[23].
In ogni caso la pedagogia per competenze apre una sfida importante per la scuola del futuro e interroga tutti gli addetti ai lavori, la politica e l’opinione pubblica su quali debbano essere le modalità più adeguate per un insegnamento efficace, critico e durevole per il XXI secolo, partendo dal presupposto che “non è però detto che sia ancora possibile innestare la retromarcia e concepire un luogo, la scuola, per l’appunto, dove si insegnano le basi delle discipline fondamentali, dove tutti gli allievi , nessun escluso, riesce ad impadronarsi delle tecniche alfanumeriche, dove le basi del sapere vengono poste, passo a passo, in comune e dove tutti hanno la possibilità di conoscere se stessi, di sviluppare le proprie personali attitudini, di apprendere secondo il proprio temperamento e di seguire le proprie inclinazioni. Già ora sappiamo che una parte della società, quella più opulenta e benestante, si oppone ormai ad una simile prospettiva”[24].
6. Il terreno scivoloso della valutazione
Sul tema della valutazione la proposta di riforma suggerisce alcuni cambiamenti di spessore. Per coglierne appieno il significato è indispensabile avere presente il contesto più generale dentro il quale essi sono stati formulati, mettendo in rilievo perlomeno due fenomeni distinti.
Da una parte è bene sottolineare il fatto che da tempo ormai le attività valutative sono concepite da chi si occupa di scuola come momenti atti in primo luogo a rendere maggiormente funzionali i processi di insegnamento/apprendimento e non più primariamente come occasioni per “classificare”, premiando o sanzionando gli allievi[25]. Valutare (e autovalutarsi) significa innanzitutto permettere a discente e insegnante di avere a disposizione le informazioni utili a regolare il più efficacemente possibile il rapporto educativo: è cioè al carattere formativo dell’atto valutativo che si guarda con crescente attenzione, come d’altronde viene spiegato chiaramente anche nell’opuscolo “La Scuola che verrà”, là dove si enfatizza il peso che dovrebbero assumere in futuro le dimensioni diagnostica e formativa della valutazione e si sottolinea l’importanza di valorizzare la “valutazione per l’apprendimento” (ScV, pp. 31-32).
Stiamo parlando, in altre parole, dell’importanza pedagogica di quella pratica che Guido Armellini descrive come “una valutazione che investe ogni momento della relazione, e può essere informale, orale, dialogica, dichiaratamente provvisoria e approssimativa, continuamente sottoposta a revisione e negoziazione, e soprattutto libera da ogni implicazione sanzionatoria e selettiva”[26]. È una pratica che va incoraggiata il più possibile e che è figlia di quella battaglia per una scuola democratica a cui abbiamo accennato all’inizio del documento: una scuola cioè che sottopose a critica il suo essere canale di riproduzione sociale, caricata in primo luogo del compito di “selezionare”, e si propose invece di diventare agente attiva del cambiamento (del “progresso sociale” si diceva), capace di piegare anche lo strumento della valutazione a questo fine, utilizzandolo per favorire l’accesso al sapere soprattutto degli studenti scolasticamente più svantaggiati.
Ma d’altra parte è altrettanto doveroso ricordare che negli ultimi due decenni il terreno della valutazione è stato investito da un profondo cambiamento di senso determinato da una vera e propria offensiva politico-ideologica tesa a imporre la misurabilità delle prestazioni e dei risultati in ogni ambito della vita sociale ed in particolare nel mondo del lavoro[27]. Si tratta di un’operazione che ha dimensioni globali e che, ancor più direttamente di quella condotta sul tema delle competenze di cui abbiamo appena parlato e con la quale è indissolubilmente intrecciata, vede nell’establishment economico e nelle istituzioni internazionali a questo più vicine i principali padrini. Il dibattito sulle finalità ultime (vere o presunte, esplicite o nascoste) della smania di valutazione costantemente cresciuta in questi anni, di quello che è stato definito il “boom delle certificazioni”, è aperto, ma non ci sembra sbagliato sottolineare come sovente dietro ad essa vi sia l’esigenza, nel quadro di una concorrenza internazionale sempre più esacerbata, di rendere molti gangli della vita sociale maggiormente funzionali alle esigenze dell’economia.
Il caso delle pressioni che, in questo particolare contesto, stanno subendo i sistemi scolastici è emblematico. Ovunque si moltiplicano le voci che chiedono alla scuola di garantire, sia durante sia alla fine dei diversi cicli scolastici, una documentazione capace di misurare e quindi di render conto dei risultati raggiunti da ogni singolo allievo in un numero crescente di ambiti. La valutazione, che assume in questo caso una forte e quasi univoca valenza certificativa, è richiesta con sempre più frequenza non solo in riferimento alle conoscenzeda acquisire, ma anche ai cosiddetti «saper fare» (le abilità), ai «saper essere» (gli atteggiamenti) e, non da ultimo, alle «competenze» (la capacità di districarsi in situazioni inedite facendo leva proprio sui saperi, sulle abilità e sugli atteggiamenti di cui si dispone). L’obiettivo, spesso dichiarato, è quello di permettere al mercato del lavoro di disporre in misura la più dettagliata possibile delle informazioni necessarie a meglio utilizzare, o non utilizzare, la manodopera in uscita dal sistema formativo: ogni aspetto del proprio curricolo va debitamente registrato – oltreché tenuto costantemente aggiornato, reso il più possibile funzionale all’esigenza di trovare una collocazione lavorativa.
Non sfuggirà a questo punto il fatto che, seppure da un canto le proposte avanzate dalle autorità dipartimentali siano esplicitamente messe in relazione con la prima delle tendenze a cui abbiamo fatto cenno (le spinte di natura pedagogica verso la valorizzazione del carattere formativo della valutazione), d’altra parte esse debbano essere lette anche tenendo in considerazione il secondo ordine di problemi esposto (le pressioni sociali verso la riduzione dell’attività valutativa a mera pratica di misurazione). Sia la generalizzazione della “cartella dell’allievo” che la novità del cosiddetto “quadro descrittivo degli apprendimenti” sono presentati come nuovi strumenti utili a rendere più efficace il rapporto educativo, l’apprendimento, l’eventuale intervento di differenziazione e infine l’attività di orientamento; ma non ci si può esimere dal far notare che essi sono pensati sul modello di dispositivi che, diffusisi a macchia d’olio in gran parte dei paesi europei, stanno suscitando – là dove sono presenti da più tempo – allarme in numerosi operatori scolastici, gruppi di studenti e associazioni di genitori[28].
Sono diverse e di diversa natura le critiche che vengono avanzate nei confronti delle nuove forme di valutazione che vanno oggi per la maggiore.
Nei confronti di strumenti come la “cartella dell’allievo” proposta dalla “Scuola che verrà”, che raccolgono informazioni sensibili sul singolo alunno inserendole in una banca dati generale (nel nostro caso si tratterebbe del sistema Gas-Gagi), si sono sollevate voci preoccupate che hanno fatto notare come si rischi di violare il principio della privacy di famiglie e allievi, archiviando in server in mano allo Stato dati che fino a oggi sono stati utilizzati in modo informale e confidenziale dai soli addetti ai lavori.
Le perplessità maggiori riguardano però proposte come quella del “quadro descrittivo degli apprendimenti”, che nel caso ticinese intende affiancare la pagella con un documento predisposto per certificare il raggiungimento dei traguardi previsti in una pletora di ambiti, cioè in decine e decine di competenze. Ogni singolo alunno sarà monitorato e valutato lungo il suo percorso in una moltitudine di aspetti con una sistematicità che è del tutto nuova. La radiografia che ne emergerà alla fine – qualcuno ha parlato in maniera non del tutto infondata di una sorta di “schedatura”, che alla fine dell’obbligo rischia di essere per molti la massima qualificazione per gli anni a venire – risulterà assai comoda per “i potenziali datori di lavoro”: è lo stesso Dipartimento a esplicitare il fatto che l’operazione ha (anche) questa finalità (ScV, p. 33). Continuiamo a credere – su questa questione avevamo già tempo fa espresso il nostro scetticismo – che non è questa una prospettiva auspicabile: il rischio è che le ansie e le preoccupazioni che tradizionalmente ruotano attorno agli aspetti certificativi della valutazione tenderanno a incidere su parte enorme della relazione educativa, inquinandola a fondo e facendo tornare la valutazione principalmente uno strumento di selezione[29].
Un’ultima frequente critica ai nuovi dispositivi valutativi concerne il fatto che la generalizzazione di questi strumenti a un numero considerevole di aspetti molto diversi tra di loro della formazione scolastica avvenga inevitabilmente, nel contesto dato, attraverso un’eccessiva standardizzazione delle pratiche di valutazione. L’esempio concreto di come potrà articolarsi il “profilo delle competenze” auspicato dalla “Scuola che verrà”, presentato alle pagine 34 e 35 del fascicolo, ci pare a questo proposito significativo: per ogni ambito di competenza previsto e in base a descrittori preordinati molto dettagliati (ma che nel contempo sovente non brillano per chiarezza), si propone al docente di compilare moduli a crocette capaci di render conto dei risultati raggiunti dal singolo allievo “per ognuno dei traguardi previsti dal nuovo Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese” (cioè per centinaia di ambiti?). La tendenza a suggerire soluzioni di matrice tassonomica ai più svariati problemi, tipica di certe scienze dell’educazione, assume qui contorni decisamente poco convincenti.
Se veramente l’intenzione è quella di potenziare la dimensione più preziosa della valutazione, quella formativa, allora a nostro giudizio la via da intraprendere è un’altra.
Si tratterebbe di recuperare l’idea che la valutazione è anche ermeneutica, olistica, soggettiva e qualitativa, che ogni disciplina e ogni ambito della relazione educativa richiede forme di valutazione dotate di una loro specificità, che infine spesso – come ebbe a dire lo storico Irwin Thompson – “ciò che veramente conta non può essere contato”. Senza voler negare l’importanza della riflessione pedagogica dedicata alla necessità di ridurre il carattere arbitrario della valutazione, pensiamo che le più recenti tendenze a moltiplicare le richieste di classificare, di compilare moduli, di riempire statistiche, di comparare situazioni, in nome dell’oggettività delle pratiche valutative, rischino di snaturare la professione del docente e la relazione insegnante-allievo su un terreno decisivo e delicato.
In ultima istanza, sarebbe sul piano delle condizioni-quadro nelle quali ci si trova a operare nella scuola che bisognerebbe incidere, garantendo ai docenti tempi e spazi congrui affinché anche sul tema della valutazione le pratiche concrete possano rispondere ai propositi e agli obiettivi sanciti sulla carta: sarebbe cioè imprescindibile una drastica riduzione delle ore-lezione per insegnante e degli allievi per classe.
Tra le novità della riforma “La scuola che verrà”che più hanno fatto discutere vi è la proposta di eliminare la richiesta della media del 4,65 per accedere alle scuole medie superiori. Anche in questo caso è indispensabile evitare letture univoche.
È indubbio che la situazione attualmente in vigore non sia affatto soddisfacente: nell’ultima versione del progetto, alle pp. 36-37, si elencano in maniera piuttosto convincente gli inconvenienti concreti che essa comporta, primo fra tutti la sua capacità di deformare – agli occhi di docenti, allievi e famiglie – il senso dell’intero percorso di formazione scolastica del bambino e del preadolescente in funzione del quasi esclusivo raggiungimento di un obiettivo formulato in termini di voti ottenuti.
Vi sono poi altre ragioni di ordine più generale che spingono verso la necessità di soluzioni alternative. A noi pare valida, sul piano dei principi, l’idea secondo cui alla fine della scolarità obbligatoria non debba essere preclusa per via istituzionale nessuna opzione possibile: è una delle misure che, in conformità con lo spirito “democratico” del nostro sistema scolastico, potrebbe – di certo non se presa isolatamente – favorire una tendenza che noi auspichiamo venga incentivata, quella di un aumento del numero di coloro che continuano a frequentare, anche dopo il compimento del quindicesimo anno d’età, formazioni di cultura generale. Con Martha Nussbaum, siamo convinti infatti che si debba guardare con preoccupazione alla sottovalutazione, fortemente presente nel mondo attuale, dell’importanza di coltivare nelle giovani generazioni quelle “capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie” che solo le scuole di formazione generale possono garantire appieno[30].
Se quanto appena detto ci spinge a salutare con favore la scelta di superare i vincoli attualmente in vigore, la proposta avanzata dalle autorità dipartimentali solleva comunque degli interrogativi e alimenta più di una preoccupazione. In particolare vi sono alcuni aspetti del contesto del mondo della scolarità postobbligatoria che ci sembra non siano stati considerati con la giusta attenzione. Ci riferiamo, da una parte, al fatto che nel settore professionale in molti casi sono imposte barriere al libero accesso alle diverse formazioni (disponendo queste di un’offerta di posti limitata) e, dall’altra, al fenomeno relativamente recente, connesso al primo, che vede in un numero crescente di casi l’opzione liceale come una scelta di ripiego, frutto non tanto di una consapevole decisione a proseguire gli studi di cultura generale quanto piuttosto dettata dall’impossibilità di imboccare la strada desiderata[31].
In questo
quadro, ci sembra fondato chiedersi quanto il dispositivo previsto – che si
limita all’abolizione della media del 4,65 e al rafforzamento delle attività di
orientamento scolastico e professionale – possa da solo proporsi di governare
il nuovo scenario che si andrà a configurare. Affinché non ci si trovi nelle
scuole di maturità a dover gestire senza i mezzi necessari un prevedibile
aumento degli studenti, con il rischio di una non auspicabile recrudescenza
della selettività, è imprescindibile affrontare il nodo delle misure di
supporto – e delle risorse aggiuntive – per il settore postobbligatorio. Si
tratterebbe di riflettere su come mettere le scuole medie superiori nelle
condizioni di accogliere nel nuovo contesto gli allievi in uscita dalla scuola
media che a esse si rivolgeranno, ma soprattutto diventerebbe urgente avanzare
proposte capaci di aumentare l’offerta formativa nel settore professionale,
affinché si possa anche in quell’ambito andare verso l’eliminazione delle
misure di contenimento delle iscrizioni.
7. Nuove identità per il docente
Da tempo il Movimento della Scuola rileva, con manifesta preoccupazione, il fatto che l’insegnante sia sempre meno concepito dalle autorità (e dalla società stessa) come persona di cultura, come testimone principe del valore della conoscenza e interprete primo dell’azione educativa. Solo chi fa dello studio una componente costitutiva della sua personalità e della sua professione può infatti trasmettere il piacere dello studio ad altri; solo chi trova per sé il senso della conoscenza può credibilmente essere ‘maestro’ di cultura. Ne conseguono ovviamente delle responsabilità deontologicamente vincolanti (in un contesto democratico l’insegnamento è professione permeata di significato scientifico, pedagogico ed etico), ma anche quel grado di indipendenza, quella libertà didattica, quell’autonomia intellettuale che sole permettono lo sviluppo culturale dell’allievo.
Molte ragioni, che sarebbe troppo lungo riprendere qui – e che sono legate sia a trasformazioni socio-culturali esterne alla scuola sia allo sviluppo delle stesse scienze dell’educazione – stanno di fatto modificando il profilo dell’insegnante privilegiandone un’importante dimensione socio-educativa, ma anche una sorta di identità tecnico-professionale che corre il rischio di confonderlo con figure professionali vicine a ruoli esecutivi e funzionariali. È un rischio grave che riduce progressivamente il grado di autonomia intellettuale del docente, ne mortifica la formazione culturale e ne configura un appiattimento operativo (l’insegnante visto come semplice esecutore didattico). Qui interessa soprattutto vedere quale sensibilità esprime il progetto di riforma del DECS in rapporto alla problematica che così abbiamo succintamente ricordato.
Che la questione sia intrinsecamente determinante lo dimostra il fatto che il fascicolo “La scuola che verrà” consacri un intero capitolo, il terzo, alla figura del docente (ScV, pp. 43-56), e che nelle prime pagine di tale capitolo si riassumano, in forma di contenzioso, le molte reazioni preoccupate che scaturiscono dalla prima consultazione sul progetto. Inutilmente però vi si cercherebbe una riflessione sui temi che abbiamo precedentemente indicato che sfoci poi in misure atte a salvaguardare l’autonomia del docente o a rafforzarne il ruolo intellettuale. La strada indicata è sostanzialmente quella della ‘comunità di pratica professionale’ che esalta l’idea della condivisione in équipe: “… l’ideale a cui tendere è quello di un docente-professionista, capace di condurre attività pratiche che presuppongono una considerevole (sic!) componente intellettuale e di lavorare in autonomia in seno a una collettività che regola il suo operato professionale” (ScV, p. 44). La citazione è piuttosto eloquente: si tratta di una definizione che non si discosta da dichiarazioni valide per qualsiasi professione nell’ambito di un concetto aziendale. Gli estensori del progetto promuovono dunque una visione fortemente permeata di collettivismo operativo (citiamo anche solo i titoli dei paragrafi costitutivi del capitolo: La collaborazione, I vantaggi della collaborazione, Collaborazioni istituzionali, Il gruppo di materia e i coordinatori di materia, Il co-insegnamento ecc.) e improntata allo scambio di esperienze e di materiali didattici che le moderne tecnologie consentono (Il portale internet). Nessuna particolare attenzione invece alla dimensione culturale cui facevamo cenno inizialmente.
Il docente se non è visto esplicitamente come mero esecutore è però enigmaticamente descritto come “responsabile delle concrete modalità di attuazione” previste dal ‘sistema scuola’ o ‘sistema di esperti’[32]. La definizione è interessante: in buona sostanza l’insegnante è identificato con un dipendente di livello superiore, certamente dotato di quella giusta dose di autonomia didattica che lo rende responsabile dell’attuazione di modalità d’insegnamento consone ai modelli pedagogici decisi in altro luogo, ma è appunto un “attuatore”, vale a dire persona che attua decisioni e modelli definiti da altri! Questa prospettiva è particolarmente importante se si tiene conto anche del nuovo “Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese”[33], un testo fortemente caratterizzato da una visione dottrinale dell’insegnamento, frutto di un tecnicismo pedagogico esasperato, al quale il progetto di riforma rinvia esplicitamente in più parti. È, questo, un testo ispirato a un’ingegneria didattica assai rigida (che sta creando qualche grattacapo anche ai suoi più convinti fautori) e che non tiene in nessun conto né la ricchezza di una varietà di approcci didattici, né le dimensioni più nobili (di natura intellettuale e culturale) che fanno dell’insegnante non un dipendente ma appunto un docente.
L’insegnante, come sostengono molti studi e come anche la nostra storia scolastica sta a dimostrare, è innanzitutto un testimone di cultura, qualcuno che grazie alla sua natura di studioso testimonia in classe, in prima persona, dell’importanza (e anche del piacere, sì, del piacere) della conoscenza.
Ancora in un recente contributo pubblicato dalla rivista dipartimentale “Scuola ticinese”, il noto psicoanalista italiano Massimo Recalcati ricorda, a proposito del desiderio dell’esperienza educativa, che un aspetto determinante è: “non fare lo psicologo, il pedagogo, non spiegare, dire qual è il senso della vita: i figli non sopportano quando un genitore spiega loro qual è il senso della vita, giustamente. Però io penso che un dono educativo imprescindibile è che i figli devono poter vedere in un insegnante, in un allenatore o nei loro genitori dei testimoni del desiderio. […] è importante incarnare un desiderio, incarnare una passione, incarnare una vocazione. È questo che contagia il figlio. Allora il desiderio si trasmette per contagio, non si trasmette per retorica o per tecniche pedagogiche …”[34]
Forse varrebbe la pena fermarsi a riflettere di più su questi aspetti, sacrificando – almeno parzialmente – quell’innamoramento pedotecnico di cui “La scuola che verrà” è zeppa. Sia chiaro che non si intende con questo misconoscere l’importanza della pedagogia o della didattica! E neppure si vuole mettere in discussione la necessità che un insegnante sappia scendere dalla cattedra, sappia interagire positivamente con gli allievi, sappia stimolare con metodi appropriati l’interesse quasi magico dello studente per i percorsi conoscitivi, sappia utilmente collaborare con i colleghi all’interno e fuori dell’istituto in cui lavora. Semplicemente si tratta di non farsi affascinare da formule tecnico-pedagogiche che hanno a volte la pretesa di assurgere a valore assoluto, cosa di cui, in campo educativo, la storia dovrebbe averci insegnato a diffidare.
La nostra denuncia della tendenza alla funzionarizzazione è legata alla difesa dell’insegnante come “persona di scuola”, cioè persona che si sente parte di un’istituzione alla cui credibilità offre il proprio impegno critico, ma non semplicemente rendendo operative le indicazioni provenienti dall’alto![35] Nel nostro contesto, il ruolo assunto dal corpo docenti (attraverso le associazioni magistrali e sindacali) nell’influenzare le politiche scolastiche, gli “orientamenti strategici”, il senso da dare all’istituzione scuola, è stato nei decenni passati assai significativo; ora la tendenza è quella di assegnare ad altri (‘esperti’ perlopiù di formazione pedagogica, tecnocrati) tali funzioni. Siamo preoccupati del fatto che in questo modo la figura del docente si confonda pian piano con quella dell’operatore socioassistenziale o del tecnico-didatta. Allontanandosi sempre più dallo studio (il suo tempo in questo ambito si assottiglia), egli assume viepiù compiti operativi/collaborativi/burocratici/compilatori.
Si pone infine con evidente gravità, come molti già hanno osservato, il tema delle ricadute che le numerose proposte inserite ne “La scuola che verrà” avranno sulle condizioni di lavoro degli insegnanti. La proposta di ridurre a 23 le ore-lezione settimanali del docente di scuola media che lavora a tempo pieno (erano 24 fino al 2004, quando una sciagurata misura di risparmio aumentò di un’ora-lezione settimanale, ovviamente senza nessuna compensazione salariale, l’onere di tutti gli insegnanti cantonali!) sembra decisamente misera rispetto al carico di lavoro che si può prevedere come conseguenza dei cambiamenti che si vogliono introdurre (differenziazione, valutazione perenne, collaborazione permanente per compiti di programmazione didattica e di gestione di attività-progetto ecc. ecc.). Tutto ciò senza che si tenga conto del fatto che negli ultimi anni l’onere di lavoro dei docenti è, per svariate ragioni, notevolmente accresciuto, come hanno sottolineato a più riprese i sindacati e come hanno fatto notare numerose prese di posizione elaborate dai Collegi dei docenti.
8. Dalla parte dell’allievo
Nel campo dell’educazione, ogni buona riforma pone al centro della sua riflessione il rapporto tra istituzione scolastica e bisogni formativi degli allievi. È un rapporto, questo, che muta storicamente, segnato dalle grandi trasformazioni culturali e sociali, ma che mantiene ferma la finalità della crescita intellettuale e culturale degli allievi nonché dello sviluppo armonico della loro personalità. L’autorità scolastica – e ancor più l’autorità civile – ha il dovere di valutare accuratamente la qualità di questa dialettica, evitando di riproporre modelli anacronistici ma anche di inseguire passivamente le mode (e i bisogni apparenti) del presente. È da questa motivazione etica, politica e pedagogica insieme, che nascono le riforme scolastiche. È da un approfondimento riflessivo che nasce (dovrebbe nascere) l’esigenza del cambiamento.
Questo è anche ciò che tutti gli insegnanti si aspettavano con l’apertura del cantiere “La scuola che verrà”: un’occasione per fare il punto sulla situazione attuale della nostra scuola dell’obbligo e per progettare su basi nuove il futuro impegno educativo. Purtroppo essi hanno dovuto constatare che il tema dei bisogni di formazione dell’allievo del terzo millennio è però stato per lo più assente nei programmi di riforma. O meglio, è stato declinato implicitamente – e quasi esclusivamente – in una dimensione permeata di pedagogismo manierato. Né la riforma dei programmi (confluita in un “Piano di studio della scuola dell’obbligo” che ha finito per essere disegnato da HarmoS più che dall’esame di nuove esigenze culturali), né il progetto de “La scuola che verrà” hanno tematizzato la questione. E questa è una grave lacuna.
È del filosofo polacco Zygmunt Bauman[36], recentemente scomparso, attento osservatore della condizione dell’uomo contemporaneo, il concetto di “società liquida”. Un concetto con il quale egli descrive una contemporaneità in cui si dissolve ogni appello a una comunità di valori riconosciuti e condivisi, dove emerge un individualismo sfrenato e dove un sistema cangiante si traduce in smarrimento socio-culturale e in spezzettamento consumistico. Il nostro tempo è segnato da un “soggettivismo” che ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile. Mancano oggi – secondo l’analisi che ne fa Bauman – dei punti di riferimento condivisi e tutto si dissolve in una sorta di impalpabile ‘liquidità’. L’individuo si confronta con nuove dimensioni dell’esistenza: da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore, e dall’altro il consumismo sia di beni materiali sia di beni immateriali (l’educazione, la cultura, il sapere per es.). Si tratta di un consumismo che mentre mira al possesso di oggetti di desiderio con cui appagarsi, nello stesso tempo li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).
Allo stesso modo persino le conoscenze appaiono come semplici oggetti di consumo, velocemente disponibili e altrettanto velocemente usurabili, senza lasciare segno alcuno (difficile dunque, seguendo l’etimo, “in–signare”, vale a dire “imprimere dentro”). Che il bambino, il ragazzo, il giovane adolescente siano confrontati con questa frammentazione consumista siamo tutti consapevoli. Che la scuola possa/debba assumersi una responsabilità affinché la frammentazione non si traduca in smarrimento, o addirittura in insignificanza, pure.
Ci si può chiedere allora in che misura la riforma dei programmi di studio e il progetto “La scuola che verrà” prendano in considerazione questo tema, non tanto per proporne soluzioni miracolistiche, che non esistono, ma per almeno considerare quale bisogno formativo ne scaturisca. Ci si può chiedere in che misura tali riforme avvicinino la questione di un approccio meno strumentale alla conoscenza (sempre più ‘usa e getta’) e come si intenda far fronte al rischio di una perdita del senso profondo dell’istruzione. Ernesto Galli della Loggia, storico e giornalista italiano, ha firmato recentemente un editoriale del “Corriere della Sera” con un titolo significativo “La crisi della scuola”. Usando parole forti, che certamente si riferiscono alla realtà italiana, ma che possiamo prendere come spunto anche per una riflessione più generale, egli afferma: “La scuola attuale … è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima …. ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura.”[37]
A ben vedere si tratta di preoccupazioni, spesso espresse anche dagli insegnanti ticinesi, che restano però inascoltate da parte dell’autorità scolastica cantonale. Di certo i problemi che abbiamo ricordato in queste righe non sono semplici, ma abbiamo la convinzione che oggi la scuola non possa non interrogarsi circa il suo ruolo educativo in una situazione per certi aspetti nuova e con orizzonti profondamente modificati rispetto anche a solo qualche decennio fa. Siamo di fronte a una necessaria ridefinizione del senso primo del ‘fare scuola’, pena lo sfaldarsi di un’identità forte e strutturante del momento educativo. Per farlo occorrerebbe partire dalla realtà dell’allievo di oggi e non da modelli pedagogici di dubbia efficacia.
Qui sta forse uno degli aspetti più deludenti del fascicolo posto in consultazione dal DECS. Non tanto (o meglio, non solo) perché inutilmente vi si cercherebbero approfondimenti ed espliciti interrogativi circa i bisogni formativi del ragazzo del nuovo millennio, quanto perché le soluzioni pedagogiche proposte sembrano figlie di un disegno che è insieme ambizioso (una sorta di onnipotenza della scuola?) e disgregante (alla società ‘liquida’ rispondiamo con una ‘scuola liquida’?). Uno sguardo ad alcune proposte ce ne dà conferma:
- L’ambizione è ben percepibile, solo per fare qualche esempio, nell’elencazione delle molteplici “competenze trasversali” e dei “contesti di formazione generale” previsti dal nuovo “Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese”, paradossalmente disgiunte dalla pregnanza dell’insegnamento delle “discipline di studio” (è un’ambizione che si traduce poi, strutturalmente, nel corso degli anni di scuola media, nello sconsiderato aumento delle “giornate progetto” a detrimento in particolare delle ore di lezione).
- La disgregazione è percepibile nella moltiplicazione delle forme didattiche (lezioni, laboratori, atelier, giornate progetto), che si traducono inevitabilmente in un incremento delle figure di riferimento per l’allievo e che mettono a rischio la già fragile possibilità del docente di conoscere approfonditamente i propri studenti. Ma anche nella disarticolazione dell’orario scolastico, proposto in blocchi di 5 settimane cangianti, sia come discipline presenti, sia come numero di ore che le discipline possono gestire dentro i blocchi stessi[38].
Con quali conseguenze per i giovani studenti?
Il sacrificio di ore-lezione consacrate alle discipline di studio, alle ore-lezione a classe intera, la proliferazione delle forme didattiche, la moltiplicazione delle figure di riferimento, la griglia oraria cangiante, le scelte opzionali, … sembrano portare a un contenitore multifunzionale che sulla carta genera nuovi orizzonti formativi e nei fatti corre il rischio di produrre frammentazione e di mortificare la valenza di quelle unità strutturanti sul piano epistemologico che la continuità didattica e le materie scolastiche dovrebbero assicurare.
Conclusione
Nessuna riforma dell’educazione può decollare senza la partecipazione attiva e onesta degli insegnanti, disponibili e pronti ad aiutare e a condividere, a offrire conforto e supporto. L’apprendimento in tutta la sua complessità comporta la creazione e la negoziazione dei significati in una cultura più vasta, e l’insegnante è il rappresentante di questa cultura. Non si può creare un curricolo a prova di insegnante, non più di quanto si possa immaginare una famiglia a prova di genitori[39]. L’affermazione di Jerome Bruner, che funge anche da motto della nostra associazione, sottolinea la centralità dell’insegnante – la sua responsabilità e la sua funzione culturale – nei processi di riforma.
Se la richiamiamo a conclusione di questo nostro contributo non è solo perché abbiamo la ferma convinzione che il principio indicato da Bruner sia condizione essenziale per le riforme, ma anche perché siamo sinceramente preoccupati di una sua sottovalutazione dentro i progetti attuali del Dipartimento. Da alcuni anni infatti la visione relativa al ‘pilotaggio del sistema scolastico’ (ci si passi questa brutta espressione) rischia di emarginare gli insegnanti (e le loro associazioni) dalla riflessione e dalla progettazione del cambiamento in educazione. Nelle procedure generatrici di cambiamento si è fatto spazio a una concezione velatamente aziendalista: il DECS ha formato gruppi di lavoro su chiamata (e non più su base di rappresentatività), ha dato a questi gruppi un mandato precedentemente orientato, ha condotto i lavori e li ha indirizzati verso orizzonti concettuali già definiti, e solo a impostazione compiuta (quando i concetti erano ormai delineati in linee-guida e indirizzi operativi) ha posto i testi in consultazione. Si è probabilmente ritenuto, in questo modo, di poter diminuire i tempi d’esecuzione e di potere aumentare l’efficacia e la produttività dell’innovazione.
Ma la scuola è un sistema complesso, dove l’efficacia pedagogica non è misurabile in termini di produttività, dove il lavoro svolto ricade sulla persona, sull’allievo e sul docente, sulla loro formazione, sulla loro cultura, sulla loro identità. Una procedura come quella che si è voluto attuare nella progettazione della scuola del domani (e più in generale in ogni progetto di rinnovamento elaborato in questi anni) porta con sé due grossi rischi che qui vogliamo indicare:
- un’estraniazione degli insegnanti dai modelli che loro stessi dovranno poi applicare;
- uno scollamento tra il mestiere dell’insegnante e i luoghi della riflessione attiva sui principi pedagogici e sui sistemi educativi.
L’uno e l’altro rischio possono tradursi in una rassegnazione e in una passività funzionariale capaci di inficiare qualsiasi spirito di riforma. Basta allora prevedere delle sperimentazioni e della fasi di implementazione per ovviare a questo problema? Basta affidarsi alla formazione (iniziale e continua dei docenti) per far passare un messaggio? Forse. Ma a quale prezzo?
Al prezzo di rendere asfittico l’afflato ideale, di trasformare l’insegnante in una sorta di esecutore didattico, di ridisegnarne l’autonomia intellettuale in termini di malinteso rispetto per procedure da seguire. Questo futuro ci preoccupa. Vogliamo sperare che così non sia, ma non possiamo neppure chiudere gli occhi su un fenomeno di disaffezione dall’ideale educativo che l’istituzione scolastica (sempre più servizio scolastico) corre. Ci permettiamo di segnalare qui questa nostra sensazione, certi del fatto che solo una sana dialettica interna alla scuola permette, in un paese democratico, di fare buona la scuola, anche a rischio di (o forse proprio grazie a) qualche disputa e qualche ritardo esecutivo.
[1] Inoltre l’indagine rileva il fatto che il sistema scolastico ticinese si dimostra particolarmente equo: rispetto a OCSE e resto della Svizzera sono più contenute le differenze tra allievi appartenenti a gruppi sociodemografici diversi, quasi inesistenti quelle tra ragazzi e ragazze.
[2] Cfr. Commissione Europea/EACEA/Eurydice, 2012. Sviluppo delle competenze chiave a scuola in Europa: Sfide ed opportunità delle politiche educative. Rapporto Eurydice. Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea.
[3] Mare Dignola (a cura di), Per una maggiore giustizia culturale. Scritti e pensieri di Franco Lepori, Società Demopedeutica, 2008, p. 49.
[4] “La personalizzazione potrebbe insomma essere considerata come un fil rouge per la costruzione della scuola del futuro” (ScV, p. 12). Se ne legga anche, alla stessa pagina, il tentativo di definizione in sconcertante pedagogichese: “Dal punto di vista pedagogico è stato affermato che la personalizzazione potrebbe essere concepita come ‘una costellazione di argomenti pedagogici cruciali’ che costituiscono un vasto paradigma di riferimento, nel quale confluiscono sia teorie cognitive e pedagogiche sia elementi di attualità”.
[5] Molti insegnanti, grazie alla libertà didattica garantita dalla legge, hanno sperimentato negli anni passati diversi metodi di differenziazione. Tra questi val la pena segnalare l’approccio DIMAT praticato da molti docenti delle scuole elementari.
[6] Massimo Baldacci, “Individualizzazione”, in G. Cerini, M. Spinosi (a cura di), Voci della scuola (vol. III), Tecnodid, 2003, p. 208.
[7] Giorgio Chiosso, La personalizzazione dell’insegnamento: http://storage.aicod.it/portale/istruzioneer/LA-PERSONALIZZAZIONE-Chiosso.rtf.
[8] Cfr. il classico Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron, La reproduction, Minuit, 1970.
[9] Philippe Meirieu, Pédagogie. Des lieux communs aux concepts clés, ESF, p. 62.
[10] Il concetto è poi ripreso anche a p. 36, nel paragrafo sulla ‘Differenziazione della valutazione’, dove si può leggere: “Se, nonostante questi sforzi, un allievo non dovesse riuscire a raggiungere gli obiettivi minimi, è possibile prevedere un adattamento di questi ultimi, e quindi anche un adattamento delle modalità di valutazione”.
[11] Molto significativo appare anche il tentativo di connotare negativamente la regolarità del ciclo di studi, enfatizzando invece il possibile cambiamento. Si veda per esempio la promozione di una griglia oraria strutturata in sequenze di 5 settimane l’una (6 sequenze x 5 settimane = 30 settimane) a cui si aggiungono 6,5 settimane di attività progettuali: “… aspetti fondamentali che permettono di passare da una griglia oraria statica a una più flessibile e dinamica in grado di proporre le diverse forme didattiche e introdurre delle possibilità di scelta da parte degli allievi” (ScV, p. 17).
[12] Una diminuzione molto significativa (equivalente a circa 1/3 dell’attuale dotazione!) delle ore insegnate a classe intera per materie come l’italiano e la matematica. Le ore-lezione perse difficilmente potranno essere compensate all’interno delle “settimane-progetto”, in cui si privilegeranno attività trasversali e non potrà essere garantita la continuità di relazione con il docente di materia.
[13] Lo studio in questione è nato in sordina all’interno dell’OCSE nel 1997, sotto l’impulso di uno sparuto gruppetto di esperti della scuola e di analisti dei sistemi scolastici poco convinti della validità delle indagini internazionali in auge fino ad una decina di anni fa sui risultati scolastici. http://www.oecd.org/pisa/35070367.pdf.
[14] PISA: Programme for International Student Assessment.
[15] Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/ TML/?uri=CELEX:32006H0962&from=IT.
[16] Obiettivi formativi nazionali: http://www.edk.ch/dyn/20833.php.
[17] Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, p. 7.
[18] “Resta indeterminato lo spessore semantico della competenza, come l’indicibilità dei suoi esiti: astratte e generiche, perlopiù riavvolgimenti e moltiplicazioni dell’ovvio, sono certe definizioni che si pretendono scientifiche e che in definitiva si rivelano funzionali soprattutto al calcolo e alla valutazione, alla formulazione di criteri per test. La formazione per competenze viene a inscriversi peraltro entro la necessità del competere, in quell’orizzonte di competitività che viene oggi considerato come l’unica prospettiva plausibile per il futuro.[…] Non esistono competenze culturali e scientifiche senza contenuti e sostanze disciplinari, senza una padronanza della materia.” (Giulio Ferroni, La scuola impossibile, Roma, 2015, p. 58).
[19] Berta Martini, Le competenze disciplinari; in: La rivista di pedagogia e didattica, n. 3/4 (2005), p. 135-140.
[20] Marcel Crahay, Dangers, incertitudes et incomplétude de la logique de la compétence en education, in: Revue Française de Pédagogie, n. 154 (2006), p. 101, citato in: Norberto Bottani, L’istruzione scolastica a un bivio di fronte alla voga travolgente e stravolgente delle competenze, http://www.oxydiane.net/IMG/pdf/DESECO_italia.pdf.
[21] Philippe Meirieu, Contre l’idéologie de la compétence, l’éducation doit apprendre à penser, in “Le Monde” 02.09.2011.
[22] Flavia Marostica , La sfida delle competenze, in “Il bollettino di Clio ’92”, n.1/2013, p. 24.
[23] Bernard Rey, Les compétences transversales en question, ESF, Paris, 1996, p. 24.
[24] Norberto Bottani, L’istruzione scolastica a un bivio di fronte alla voga travolgente e stravolgente delle competenze, http://www.oxydiane.net/IMG/pdf/DESECO_italia.pdf.
[25] Altrettanto vero è che gli insegnanti si trovano raramente nelle condizioni ideali per tradurre adeguatamente questo approccio nella pratica professionale: è questo un altro discorso, su cui si tornerà.
[26] Guido Armellini, A chi e a che serve la valutazione?, in «Gli Asini», n. 18 (2013), p.41.
[27] Non è possibile ovviamente approfondire la questione. Un testo che offre numerosi spunti interessanti sull’argomento, tra i quali anche un contributo sul significato assunto oggi dalla valutazione scolastica, è : Mateo Alaluf et alii, Mesures et démesures du travail, Editions de l’Université de Bruxelles, 2012.
[28] Particolarmente acceso è stato il dibattito in Francia, in special modo attorno al cosiddetto “livret de compétences”. Si veda ad esempio, a questo proposito, Le socle commun, un leurre: le fichage des compétences des citoyens tout au long de la vie, une réalité, intervento di Mireille Charpy, ex direttrice di scuola elementare. Il documento, ricco di riferimenti ad altri contributi sul tema, è scaricabile dal sito di Philippe Meirieu (www.meirieu.com).
[29] Confessiamo di non essere riusciti a cogliere il senso di alcune puntualizzazioni fatte nella seconda versione della “Scuola che verrà” su questo tema. Ci pare decisamente contradditoria l’indicazione che la “cartella dell’allievo” non debba comprendere “elementi di giudizio” ma solo “elementi oggettivi riguardanti il processo di insegnamento/ apprendimento”, come se fosse possibile garantire i secondi evitando i primi. Ancor meno convincente poi l’affermazione secondo la quale “visto che il quadro descrittivo è da intendersi come espressione positiva delle caratteristiche dell’allievo, la soluzione prospettata scongiura qualsiasi possibilità di ‘schedatura’ negativa dell’allievo”: il pericolo di una ‘schedatura’ che marchi negativamente l’alunno non è di certo evitato abolendo gli avverbi di negazione!
[30] Cfr. Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2011.
[31] Fenomeno, quest’ultimo, a cui accenna una recente ricerca svolta proprio sul nostro territorio: Jenny Marcionetti et al., Snodo: percorsi scolastici e professionali dalla scuola media in poi, Locarno: SUPSI-DFA, 2015.
[32] Cfr. ScV, p. 43: “Il sistema deve definire delle condizioni quadro, delle finalità a cui tendere, che verranno monitorate sul piano generale, ma saranno poi i docenti a definire le modalità concrete di attuazione”.
[33] Testo approvato provvisoriamente per tre anni dal Consiglio di Stato nell’agosto del 2015.
[34] “Scuola ticinese”, periodico della Divisione della scuola, n. 3/2016, p.15. Di Massimo Recalcati si veda anche il volumetto L’ora di lezione, Torino, Einaudi, 2014.
[35] È un aspetto, questo, che molti Collegi dei docenti avevano sottolineato con evidente preoccupazione già in occasione della discussione sviluppatasi attorno alla proposta di Profilo dell’insegnante della scuola ticinese del 2014/15 poi ritirata.
[36] Zygmunt Bauman (1925-2017) è stato un sociologo e filosofo polacco. Tra i suoi libri tradotti in italiano: La società dell’incertezza, Bologna, il Mulino, 1999; Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002; Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006; Consumo, dunque sono, Roma-Bari, Laterza, 2008; La vita tra reale e virtuale, Milano, EGEA, 2014.
[37] Ernesto Galli della Loggia, “La crisi della Scuola” in «Corriere della sera », 16 gennaio 2017.
[38] La griglia oraria è strutturata su sequenze di 5 settimane, all’interno delle quali si svolgono le attività didattiche necessarie per sviluppare competenze e apprendimenti durevoli. Inoltre le 5 settimane sono un periodo nel quale è possibile realizzare un progetto che ha una sua completezza e che viene concepito in continuità con quanto proposto prima e dopo. Questo significa che allievi e docenti ricevono all’inizio dell’anno due orari che si succedono di regola ogni 5 settimane. Le 36.5 settimane che compongono un anno scolastico vengono divise in 30 settimane dove si alternano le due sequenze (ognuna quindi viene ripetuta per tre volte) e in 6.5 settimane dove si propongono le giornate progetto.(ScV, p. 18).
[39] Jerome Bruner, La cultura dell”educazione, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 97.