Quello che segue è il contributo elaborato dal Movimento della Scuola nell’ambito della consultazione indetta dalla Divisione Scuola del DECS sulla proposta di riforma tesa a superare i corsi attitudinali e base in terza media.

In fondo alla pagina riportiamo anche l’articolo apparso sul Corriere del Ticino venerdì 17 dicembre, nel quale sono state messe a confronto le posizioni sulla questione del Movimento della Scuola e dell’OCST-docenti.

Premessa

Crediamo che l’idea secondo la quale oggi sia necessario superare la presenza, nel secondo biennio della scuola media, di curricula separati (i corsi attitudinali e di base, peraltro limitati all’insegnamento della matematica e del tedesco) non può che essere condivisa. Non solo in virtù del fatto che, come sottolinea lo stesso documento del DECS, questa forma di differenziazione strutturale è sempre meno accettata socialmente e sempre meno funzionale agli scopi a cui originariamente mirava, ma anche perché a nostro giudizio va salutato con favore ogni sforzo teso a prolungare il periodo di formazione durante il quale i percorsi e gli obiettivi da raggiungere sono gli stessi per tutti gli allievi e tutte le allieve, a prescindere dalle capacità scolastiche di volta in volta dimostrate. È stata questa la strada attraverso cui storicamente è stata rafforzata la dimensione democratica dei sistemi educativi: più avanzata è stata l’età in cui si è imposta la scelta di percorsi di studio distinti, più agevolmente si è riusciti a limitare l’incidenza delle origini socio-economiche e del “capitale culturale” di cui si dispone nel determinare il futuro dei singoli alunni, cioè – in altre parole – più facilmente si è riusciti a ridurre il carattere discriminatorio di quella selezione sociale a cui la scuola, uno dei principali enti preposti alla riproduzione della società, contribuisce in misura determinante.

A questa doverosa premessa va però aggiunta una seconda considerazione, per noi altrettanto importante: affinché questa prospettiva generale risulti credibile, oltre che difendibile dalle critiche di chi preferirebbe mantenere nel settore dell’obbligo forme di differenziazione strutturale, è bene che ad essa corrisponda una proposta di riforma convincente, capace di ponderare tutti gli aspetti della questione (a partire dalla garanzia di nuove migliori condizioni di lavoro per docenti e allievi), di far capo ad argomenti solidi a proprio sostegno e di offrire infine un dispositivo condiviso il più possibile con quadri e operatori scolastici. Su queste questioni la proposta formulata dal Dipartimento risulta a nostro avviso carente o problematica. Di seguito cercheremo di spiegare – in tre ambiti che consideriamo decisivi – le ragioni delle nostre perplessità.

Differenziazione, ma quale differenziazione e con quali risorse?

Alcune voci critiche alla proposta di superamento dei corsi A e B denunciano il fatto che lavorare con gruppi di allievi molto eterogenei significhi appiattire obiettivi e contenuti dell’insegnamento verso il basso, conseguenza inevitabile dell’impossibilità di tener in debita considerazione le potenzialità degli studenti più preparati; altre aggiungono che anche gli allievi meno dotati rischierebbero di apprendere con più difficoltà, trovandosi in un contesto non tarato sulle loro capacità. Riteniamo che l’autorità scolastica abbia buon gioco nel rispondere che se i corsi A e B vengono sostituiti da forme di “differenziazione pedagogica” il problema non può essere certo posto in questi termini. Da decenni nelle nostre scuole è diffuso tale approccio ed esso si propone, proprio nei contesti caratterizzati dall’eterogeneità, esattamente questo: di sfruttare nel processo d’apprendimento le diverse peculiarità dei discenti per garantire a tutti – agli alunni brillanti come a quelli più in difficoltà – stimoli adeguati al raggiungimento dei traguardi fissati dall’istituzione scolastica; è la stessa eterogeneità del contesto che, adeguatamente sfruttata, permette di garantire efficacia nell’apprendimento a figure dotate di capacità diverse.[1]

Il problema è che tali pratiche possono essere adottate efficacemente, e in misura più frequente di quanto si faccia attualmente, solo ponendo allievi e insegnanti in condizioni adeguate. Nel documento del DECS ci si limita a proporre la sostituzione dei corsi A e B con delle ore settimanali di laboratorio a metà classe e a ricordare genericamente che l’attività laboratoriale “oltre a incentivare l’equità, consentirebbe un miglioramento sia delle condizioni di lavoro dei docenti sia delle condizioni di apprendimento degli allievi”, senza però fornire particolari elementi a dimostrazione di queste correlazioni. A nostro avviso esse meritano invece un approfondimento. In particolare:

a) Effetto dei laboratori sull’apprendimento degli allievi

Pensando agli studenti, il solo inserimento in un gruppo a ranghi ridotti non è condizione sufficiente a garantire una maggiore efficacia nell’apprendimento; fondamentale è la pertinenza del progetto pedagogico che i laboratori dovranno contribuire a realizzare – in termini di bisogni da soddisfare, di metodi didattici e di pratiche valutative, di competenze da coltivare e di contenuti disciplinari da acquisire.[2]

Ora, nel documento sottoposto a consultazione nulla si dice su tutto ciò: come esprimere quindi un giudizio sulla proposta dipartimentale a fronte del fatto che questi aspetti centrali della modifica strutturale suggerita sono totalmente trascurati? Nessuno mette in dubbio le potenzialità dello strumento laboratoriale, ma ci pare poco sensato prendere posizione sull’idea generale di allargare ulteriormente l’uso del contenitore “laboratorio didattico” senza poter discutere dei “contenuti”, cioè delle finalità a cui tale strumento dovrebbe mirare. A maggior ragione in considerazione del fatto che, come già a suo tempo riferito dagli esperti di matematica nel documento Riflessioni sul superamento dei corsi A e B, non esiste ancora alcun riscontro ponderato dell’effettivo impatto sull’allievo, in termini di apprendimento, delle ore a metà classe introdotte di recente in prima e seconda media.

b) Effetto dei laboratori sulle condizioni di lavoro degli insegnanti

Dal punto di vista degli insegnanti, il numero degli allievi di un gruppo-classe è solamente uno dei parametri utili a stabilire il carico di lavoro. Nel caso si vada nella direzione auspicata dal DECS, gli insegnanti di matematica e tedesco in terza media dovranno introdurre da 2 a 3 ore settimanali di attività laboratoriali – preparate in base ai bisogni dei singoli allievi – e nel contempo sistematizzare la differenziazione nelle ore di tronco comune. Questo in un nuovo gruppo classe la cui eterogeneità verrà esasperata dal fatto che i contenuti degli attuali corsi A sono molto ambiziosi, in quanto progettati per un gruppo di allievi selezionati per abilità e non per una classe normale. Preparare e poi portare avanti un corso differenziato unificato costerà ai docenti notevoli risorse in più rispetto agli attuali due corsi separati. Bisogna dirlo esplicitamente: per la differenziazione, per gestire e monitorare l’eterogeneità, serve tantissimo lavoro di osservazione, riflessione e progettazione delle lezioni. Non bisogna poi dimenticare, che i docenti delle materie a livello sono già attualmente impegnati nell’adattare i loro corsi di prima e seconda alla novità dei laboratori da poco introdotti. Adattamento che richiederà anni di impegno, per evitare che i laboratori si traducano semplicemente in lezioni a classe dimezzata.

Prendere sul serio le conseguenze di questi cambiamenti significa porsi il problema del reperimento di risorse aggiuntive per scongiurare l’altrimenti inevitabile peggioramento delle condizioni di lavoro degli insegnanti interessati. Si tratta per noi di una questione imprescindibile, di fronte al graduale ma costante densificarsi del carico di lavoro dei docenti avvenuto nell’ultimo decennio, con particolare evidenza nel settore della scuola dell’obbligo. La parte “sommersa” della nostra professione – quella dedicata alla preparazione delle lezioni e delle ormai sempre più diffuse attività laboratoriali, alla valutazione, all’aggiornamento, ai progetti di istituto, alla collaborazione con i colleghi, ai colloqui con le famiglie, ai compiti amministrativi – non ha fatto che crescere, in parallelo allo stress provocato dalle continue riforme, spesso calate dall’alto, riguardanti sia i contenuti disciplinari che le pratiche didattiche.

In questo quadro, le nostre preoccupazioni sono ulteriormente alimentate dal fatto che la riforma richiederà il reclutamento di parecchi nuovi insegnanti proprio nelle due discipline che da tempo soffrono della carenza di candidati idonei. Basti pensare alle centinaia di ore attualmente assegnate con un “incarico limitato” a docenti non ancora abilitati (parte dei quali sono persone addirittura sprovviste dei titoli necessari per accedere alla professione).

I nuovi docenti andranno a sommarsi ai molti recentemente assunti dopo l’introduzione dei laboratori di matematica in prima e seconda media, docenti alle prime armi che si troveranno a dover affrontare un’eterogeneità mai vista prima senza strumenti adeguati e senza la necessaria esperienza.[3]

La mancanza di una riflessione preliminare sul mondo della formazione post-obbligatoria

La riflessione attorno al futuro dei corsi A e B non può essere scissa da un profondo ripensamento dei criteri di accesso alle scuole post-obbligatorie e dell’offerta di posti di apprendistato: è questo forse il limite principale della proposta dipartimentale, che – decidendo di intervenire solo sulla classe terza – espelle del tutto la questione dal confronto. Secondo noi è invece soprattutto su questo terreno che bisognerebbe ragionare. La transizione dalla scuola dell’obbligo al secondario II costituisce il nodo centrale che spiega la perdita del senso originario dei corsi A e B, con una serie piuttosto evidente di conseguenze. Non ci riferiamo solo alle crescenti pressioni sulle famiglie legate alla scelta del corso a cui iscrivere il proprio figlio e alla diffusa rappresentazione negativa dei corsi base – la cui frequenza è oggettivamente penalizzante sia per l’accesso alle scuole a tempo pieno sia per la possibilità di trovare un posto di lavoro. Crediamo che il modo con cui oggi questo passaggio tanto delicato avviene, incida anche nel determinare fenomeni preoccupanti come ad esempio quello concernente l’aumento delle lezioni private, soprattutto di matematica, a cui le famiglie accedono spesso con l’illusione – se non addirittura la pretesa – di ottenere un buon voto al corso A[4].

Siamo profondamente convinti che il tanto auspicato potenziamento dell’orientamento scolastico, che a noi pare oggi funzioni tutto sommato bene, non possa veramente guadagnare in efficacia senza che si parta da qui, cioè dalla necessità di migliorare le reali opportunità che offriamo ai nostri allievi a conclusione della scuola media.[5]

Ecco allora qui di seguito alcune brevi riflessioni su questo tema, che intendono fare da spunto per ulteriori approfondimenti:

  • Accesso alle scuole medie superiori.

Già oggi vi è la possibilità di accordare una deroga ai criteri ufficiali stabiliti per assegnare una licenza SMS nel caso di una nota 5 in tedesco assegnata nel corso B. Ci sono parse sensate le molte voci in seno alla scuola media, in primis il gruppo di esperti di matematica, che hanno proposto, come misura immediata, la possibilità di concedere la stessa deroga anche per la matematica, affinché siano alleggerite le pressioni su questa specifica materia.

Più in generale però, riteniamo fondamentale che, nel caso si vada nella direzione di un superamento dei corsi A e B anche in quarta media, si valutino con particolare attenzione le ripercussioni di un più libero passaggio verso percorsi scolasticamente impegnativi come quelli offerti dal settore medio superiore. Coerentemente con quanto affermato nella premessa del presente documento, crediamo che l’eventuale aumento degli accessi a scuole di maturità come i licei sia di per sé un fatto positivo, ma ciò non deve significare sottovalutare l’importanza di avviare fin da subito una seria riflessione atta a garantire a queste scuole nuove condizioni ideali – in termini di risorse e di mezzi a disposizione – per affrontare, in particolare nel primo biennio, eventuali nuovi scenari.

  • Accesso alle scuole professionali a tempo pieno.

Per l’accesso a scuole professionali a tempo pieno un’ipotesi su cui ragionare nell’immediato è a nostro avviso quella di relativizzare – nell’ambito dei criteri adottati per selezionare le candidature – il peso della frequenza dei corsi A. In alcuni casi sarebbe inoltre fondamentale progettare per i prossimi anni un aumento del numero di posti a disposizione.

Emblematico, su entrambi i temi, è l’esempio della Scuola specializzata per le professioni sanitarie e sociali (SSPSS). Essa vaglia le candidature stilando una graduatoria in base alla pagella finale di quarta media: un’insufficienza nel corso A offre maggiori garanzie di ammissione rispetto ad un buon voto nel corso B. È però lecito chiedersi se è più preparato in matematica e tedesco un allievo nella prima o nella seconda situazione, come pure in che misura queste due materie siano tanto più fondamentali di altre per una formazione socio-sanitaria. Più in generale, a fronte dell’interesse che la SSPSS suscita nei giovani in uscita dalla scuola media, appare ormai difficilmente difendibile il basso numero di ammissioni alla scuola, che forma professionisti in un ambito nel quale la pandemia ha messo in evidenza la penuria di personale locale.

  • Accesso all’apprendistato

I datori di lavoro hanno libertà di scelta fra i candidati per un apprendistato. Si tratta spesso di una decisione che implica un investimento impegnativo in termini di formazione, tempo di accompagnamento e soldi, in particolare per le aziende di piccole dimensioni. Molti di essi tendono così ad assumere giovani pensando che la frequenza dei corsi A offra maggiori garanzie di riuscita scolastica, a maggior ragione in tempi di crisi. Noi sappiamo per esperienza che questa correlazione non è così pertinente: ci sono allievi che hanno frequentato i corsi B con successo e maturità e che per questa via hanno acquisito maggiori competenze e conoscenze rispetto a chi ha seguito i corsi A con difficoltà o “stando a galla” a suon di lezioni private. A ciò si aggiunge il fatto che molti allievi, stimolati dagli aspetti pratici di un apprendistato, spesso – usciti da una scuola media in cui faticavano a impegnarsi – trovano nuove ragioni per applicarsi con serietà durante i momenti di formazione sia in azienda che a scuola.

In questo quadro, sarebbero fortemente auspicabili misure più incisive da parte dello Stato per la creazione di posti di tirocinio. Lo Stato innanzitutto dovrebbe evitare di adottare esso stesso criteri discriminanti nei confronti degli allievi provenienti dai corsi B. Potrebbe poi prendere provvedimenti che agevolino l’assunzione di apprendisti da parte delle piccole aziende e dei settori in cui servirebbe manodopera locale, o di quegli ambiti professionali che suscitano interesse fra i giovani ma nei quali i posti d’apprendistato sono molto limitati.

  • Il problema di chi non trova sbocchi

In taluni casi sarebbe addirittura utile riflettere sulla possibilità di creare degli atelier pubblici che possano garantire una formazione professionale, con una particolare attenzione a quella fetta crescente di giovani che, usciti dalla scuola dell’obbligo, si trovano per mille ragioni impossibilitati a trovare uno sbocco. Ci preoccupa a questo proposito il crescente numero di ragazzi che frequentano il pretirocinio, con un aumento del 440% negli ultimi 20 anni[6]. Se formalmente essi risultano nelle statistiche come “collocati”, di fatto si trovano lì perché non hanno potuto accedere a una scuola o non hanno trovato un posto di apprendistato.

Una procedura poco “inclusiva”

Nel documento posto in consultazione un intero capitolo (il terzo) è dedicato al percorso svolto all’interno del mondo della scuola per giungere alla proposta formulata. A leggerlo sembrerebbe che tale proposta sia il frutto di un’ampia attività di coinvolgimento delle diverse componenti della scuola, finalizzata a integrare idee e sensibilità provenienti “dal basso”, cioè da docenti e quadri scolastici. La realtà a noi pare un’altra. Il fatto è che il DECS chiama “coinvolgimento” nella migliore delle ipotesi la strategia messa in campo per sondare la disponibilità degli operatori scolastici nei confronti delle riforme, che sono però sempre più pensate nei suoi assi di fondo in ristretti gruppi di “collaboratori scientifici” selezionati in funzione della loro conformità agli intenti ideali dei vertici dipartimentali; sulla base di questi “sondaggi” si corregge poi eventualmente il tiro (per lo più su aspetti formali, quali i tempi d’attuazione delle misure, la loro gradualità, ecc.). Per noi invece, “coinvolgimento” dovrebbe significare qualcosa di sostanzialmente diverso: la partecipazione diretta del mondo della scuola, con la sua pluralità di sensibilità e di condizioni, all’elaborazione delle politiche scolastiche. Sia chiaro, nessuno intende mettere in discussione il ruolo di direzione e la responsabilità delle scelte che i vertici del dipartimento sono chiamati in ultima istanza a prendere, ma riteniamo fondamentale che queste decisioni – per risultare utili e credibili – si fondino fin dalla loro prima elaborazione su ciò che docenti, direttori ed esperti di materia vivono sul campo, nel loro quotidiano fare scuola.

Ciò che è avvenuto in merito alla proposta di superamento dei corsi A e B ci pare un caso di scuola emblematico di un approccio incapace di creare adesione tra i docenti attorno a una proposta di riforma. Proviamo allora a tratteggiare una cronistoria della procedura adottata per “coinvolgere” il mondo della scuola, alternativa a quella presentataci dalle autorità scolastiche:

  • Una prima ipotesi di riforma è ideata in seno al ristretto corpo dei funzionari della Divisione Scuola. Essa è quindi presentata ai direttori, agli esperti delle due materie coinvolte e ai presidenti dei collegi docenti delle scuole medie nell’autunno del 2020.[7] Ai presidenti dei plenum si chiede di sondare l’opinione dei docenti, ma senza fornire loro nessun documento ufficiale che definisca chiaramente il progetto e su cui poter attuare un’autentica riflessione.
  • Tra l’autunno e la primavera dell’anno scolastico scorso molti collegi dei docenti di scuola media intervengono, in più casi denunciando la difficoltà di prendere posizione su un’ipotesi di cambiamento su cui già sono state elaborate delle soluzioni e che però non è dato conoscere nel dettaglio. Di questi rilievi – e più in generale del peso delle osservazioni critiche emerse da questa fase di consultazione – è difficile avere un quadro completo: pochi documenti sono circolati e nella sintesi del DECS viene semplicemente detto che si prende atto della varietà dei punti di vista all’interno del corpo insegnanti e che… la diversità di opinioni è una ricchezza!
  • Uno dei contributi che in questa fase ha stimolato maggiormente il confronto è stato il documento che il gruppo degli esperti di matematica ha diffuso tra gli insegnanti – con un certo coraggio, visto il modo con cui il Dipartimento considera ogni forma di dissenso pubblico da parte dei quadri scolastici. Di questo testo, che sollevava diverse obiezioni e che proponeva una temporanea modifica normativa tesa ad agevolare l’accesso al settore medio superiore per gli allievi più brillanti provenienti dai corsi di base, nel documento proposto oggi non c’è alcuna menzione.
  • Nel frattempo il gruppo di lavoro sulla riforma è stato ampliato (integrandovi solo un esperto di matematica e uno di tedesco!), ma tra i docenti permane comunque l’incertezza sulle implicazioni dei cambiamenti a cui a Bellinzona si sta lavorando. È solo a fine maggio, quando compare sul Corriere del Ticino un articolo sul tema, che i docenti vengono finalmente a conoscenza dei reali termini del progetto.
  • Il 22 settembre si apre la consultazione larga, ma nel frattempo dalla proposta di maggio si è passati ad uno scenario che vede l’abolizione dei corsi A e B solamente nella classe terza. Cosa è successo durante l’estate? A cosa è dovuto questo ripensamento (che a nostro giudizio, come abbiamo spiegato in precedenza, rende la riforma meno credibile)? Non ci è dato saperlo.

Se il punto di vista del corpo docenti nel suo complesso non trova un congruo riscontro nel modo di operare delle autorità scolastiche, grande risalto acquista invece, nella comunicazione del DECS, il progetto di Caslano, di cui si parla a più riprese come di una “sperimentazione sul superamento dei corsi A e B”. A noi non sembra che ciò che – con intenti lodevoli e apprezzabile impegno – i colleghi di Caslano hanno messo in campo abbia i crismi di una sperimentazione capace di supportare scientificamente la proposta formulata nel documento. Si tratta di un progetto interno, in fieri, che doveva offrire ai ragazzi di quella sede un anno di tempo in più per accedere ai corsi a livello con maggiore maturità. Questo progetto di sede, legato ad un momento storico particolare, è stato in un secondo tempo inglobato nella stesura del progetto, quale “sua” sperimentazione: ci pare una scelta strumentale, che tra l’altro rischia di inficiare l’oggettività della valutazione a posteriori dell’efficacia dell’attività svolta a Caslano, sotto la pressione politica e mediatica a cui il DECS ha deciso di sottoporre l’esperimento.

Conclusione

Siamo convinti che per rendere la proposta di riforma efficace e credibile sarebbe stato opportuno coinvolgere maggiormente i rappresentanti del mondo della scuola sin dalle fasi di gestazione. La fretta con cui si intende realizzare questo progetto lascia irrisolte numerose questioni.

In particolare, il Movimento della Scuola auspica che prima di procedere ad attuare in via definitiva i cambiamenti proposti:

  • venga sciolto il nodo del passaggio al secondario II; in caso contrario i problemi principali che la riforma si propone di risolvere rimarrebbero comunque insoluti, spostando semplicemente la questione alla classe quarta;
  • si affronti la difficoltà nel reperire docenti di materia con le competenze necessarie all’insegnamento; il fabbisogno di docenti, per quanto riguarda le discipline di matematica e tedesco, costituisce un problema ormai da anni, e va risolto senza che ne risenta la qualità dell’insegnamento;
  • si garantiscano a docenti e allievi le condizioni per poter lavorare in maniera efficace in classe, reperendo le risorse aggiuntive necessarie; segnatamente, con il contributo dei docenti e degli esperti delle due materie coinvolte, si definiscano i contenuti disciplinari e le competenze da raggiungere attraverso le nuove modalità didattiche adottate;
  • si valuti seriamente l’impatto sull’apprendimento dei laboratori di prima e seconda recentemente inseriti in griglia;
  • vengano svolte sperimentazioni mirate sull’arco di più anni in sedi che costituiscano un campione rappresentativo.

[1] Negli ultimi anni si sono però diffusi, prima nel dibattito accademico e poi anche nella realtà pedagogica di molti paesi, approcci alla differenziazione che puntano a una “personalizzazione” dei percorsi educativi: l’intenzione è quella di abbandonare il proposito storico del raggiungimento per tutti gli allievi degli stessi traguardi (pur se sovente con gradi di approfondimento diversi in relazione alle capacità di ognuno), sostituendolo con quello mirante a valorizzare i cosiddetti “talenti” dei singoli, diversificando, in funzione di queste presunte potenzialità individuali, gli obiettivi da raggiungere. Su questo nodo, a nostro giudizio fondamentale per capire a quale tipo di scuola si vuole puntare, il DECS mantiene un’ambiguità che prima o poi dovrà essere sciolta. Sui pericoli della “personalizzazione” rimandiamo al documento elaborato dal Movimento della Scuola in occasione della consultazione riguardante il progetto “La scuola che verrà” (pp. 6-8) scaricabile al seguente link: https://movimentoscuola.ch/la-scuola-che-verra-risposta-del-mds-alla-consultazione

[2] Lo stesso studio di John Hattie citato nel documento del DECS, che dimostra i vantaggi dell’insegnamento a gruppi eterogenei, sottolinea il carattere relativo dell’incidenza, sull’efficacia dell’apprendimento, del fattore del numero di allievi per classe.

[3] La recente notizia secondo la quale il DFA-SUPSI ha deciso di predisporre percorsi di abilitazione per l’insegnamento della matematica rivolti a candidati privi dei titoli necessari, non fa che rendere ai nostri occhi la situazione ancora più allarmante. Il pericolo evidente è quello di una riduzione della qualità dell’insegnamento.

[4] Nel 2012 il 18.5% degli allievi di terza e quarta seguivano regolarmente lezioni private, mentre il 42% saltuariamente (CIRSE, Scuola a tutto campo 2019, p.66). E oggi? L’impressione è che il fenomeno si sia ulteriormente diffuso.

[5] Da alcuni anni in seno al DECS è attivo un gruppo di riflessione sulla transizione fra SM e secondario II. Sarebbe stato assai utile, nell’ambito della discussione sul superamento dei corsi A e B, venire a conoscenza delle riflessioni e delle eventuali proposte operative su cui tale commissione sta lavorando. Dell’attività di questo gruppo invece non si è mai fatta menzione.

[6] DECS, Scuola ticinese in cifre 2021, p.21. Si considerano gli iscritti al pretirocinio di orientamento e a quello di integrazione e l’evoluzione fra il 1999/2000 e il 2019/2020.

[7] Curiosamente l’insieme del collegio degli esperti di materia, uno dei principali organi preposti per legge alla valutazione dell’insegnamento nel settore medio, è informato ufficialmente dei lavori in corso solo nel febbraio del 2021.


Divide il superamento dei livelli. «Proposta monca e temeraria»

di Francesco Pellegrinelli (Corriere del Ticino, 17 dicembre 2021)

I sindacati attivi nell’ambito dell’educazione prendono posizione sul modello proposto dal Dipartimento guidato da Manuele Bertoli. D’Ettore: «Rischia di essere controproducente.» – Frigeri: «Il principio è condivisibile, ma mancano i contenuti per applicarlo con successo.»

«Il modello proposto dal DECS non risolve i problemi che dice di voler affrontare». Gianluca D’Ettorre, presidente di OCST-Docenti, è perentorio: «La proposta di superamento dei livelli A e B in terza media, posto in consultazione dal Dipartimento, rischia di essere controproducente». Questione di coerenza tra gli obiettivi che si vuole perseguire e le misure messe in campo per ottenerli. Il dubbio maggiore? «La differenziazione pedagogica all’interno di gruppi misti non garantisce risultati migliori, anzi».

Dall’OCST al Movimento della scuola che formalizzerà ufficialmente la sua posizione nei prossimi giorni. Favorevole al principio di una scuola democratica, l’associazione magistrale condivide la necessità di un cambiamento. Alessandro Frigeri: «Condividiamo il principio di fondo, ma abbiamo parecchie perplessità sulla proposta concreta così come è stata presentata e come il Dipartimento intende applicarla».

Meno critica la posizione della VPOD-docenti che, in linea generale, «concorda sulla proposta del Dipartimento di sostituire i corsi A e B in terza media con lezioni a classe dimezzate in tedesco e matematica, i cosiddetti laboratori».

Il mondo della scuola, insomma, è pronta a lanciare il suo dibattito. A condividere con la società le proprie riflessioni. «Peccato, però, intervenire a giochi fatti, unicamente in sede di consultazione», commenta amareggiato Frigeri. Una nota negativa condivisa anche dalle altre sigle sindacali. Quali allora le critiche maggiori? Sicuramente la scelta di limitare la riforma alla sola terza media. Per la VPOD, la proposta è «monca». Per l’OCST è temeraria: «Non abbiamo ancora valutato l’efficacia dei laboratori in prima e in seconda media, e ora il DECS vuole introdurli  in terza». Per il Movimento della scuola, invece,  «si cerca di risolvere le criticità di un modello scolastico in terza, lasciando però che facciano capolino in quarta». Secondo il Frigeri, si torna così ai piedi della scala, perché «il vero nodo da sciogliere riguarda il passaggio tra la scuola dell’obbligo e le scuole post-obbligatorie».

Qual è allora questo modello che il DECS intende superare con la sua riforma? Il documento dipartimentale su questo punto è estremamente chiaro: «Il sistema a livelli è oramai ritenuto inadeguato. La suddivisione degli allievi in gruppi distinti (livelli A e B, ndr) oltre a rendere il sistema scolastico poco equo, crea delle pressioni molto forti sulle famiglie, sui docenti e sugli istituti, ma soprattutto sugli allievi». Il DECS, insomma, propone di superare lo stigma del livello A e B – oramai imperante a livello sociale – «non tanto perché la gente è diventata più difficile», commenta Frigeri, «ma perché effettivamente ritrovarsi con una licenza di scuola media con i livelli B significa essere penalizzati per l’accesso a diverse scuole del post obbligatorio: dal liceo alle scuole a tempo pieno e, in certi casi, anche per trovare un posto di apprendistato [il problema non è la scuola ma l’assunzione da parte di un datore di lavoro]». Di qui, appunto, l’importanza di trovare nuove soluzioni rispetto a quelle che oggi regolano il passaggio tra la scuola dell’obbligo e il post-obbligo.

Ed è proprio su queste premesse che il sindacato OCST docenti costruisce il suo argomento principale. Ancora D’Ettorre: «Il problema dello stigma sociale dunque non sta nella scuola ma fuori. Quindi, cambiamo il fuori e non i livelli che hanno una loro valenza pedagogica». Di  qui la proposta: «Seguendo l’idea suggerita dal gruppo di esperti di matematica, si potrebbe modificare il regolamento per accedere al Medio superiore e ad alcune scuole professionali, anche con una buona nota nel livello B di matematica», osserva d’Ettorre. Una soluzione, già introdotta per il tedesco, apprezzata anche dal Movimento della Scuola: «Il dipartimento ha scelto di non dire nulla su questa proposta che attenuerebbe la pressione sul corso B di matematica almeno temporaneamente fin tanto che non si concretizzi il passaggio al nuovo modello».

La questione di fondo, però, rimane. Se la pressione sul sistema livelli viene essenzialmente da fuori, dal profilo pedagogico i corsi A e B hanno senso? Su questo punto, OCST e Movimento della scuola si dividono. Frigeri: «Abbiamo discusso a lungo e con sfumature diverse. Ma l’idea di superare questa differenziazione strutturale (i livelli, ndr) basata sulle capacità degli allievi ci sembra una buona idea. Lo è anche nei fatti. Esiste una letteratura che dimostra che l’apprendimento nei gruppi misti è efficace, a volte più efficace, sia per gli allievi più brillanti, sia per quelli più in difficoltà». Secondo Frigeri, dunque, il superamento dei livelli non risponderebbe solo a un’idea sociale di scuola inclusiva, ma anche a una necessità pedagogica.

Sul fronte opposto, D’Ettorre: «Nutriamo seri dubbi sulla differenziazione pedagogica che si vuole introdurre nei laboratori misti. Se differenziare i percorsi significa far lavorare gli allievi secondo i propri  ritmi e capacità, allora, lo sprone dell’obiettivo da raggiungere potrebbe venire meno». Non solo. Secondo D’Ettorre, la differenziazione solleverebbe anche problemi pratici riguardanti la valutazione dei docenti. «Quali saranno i metri di giudizio in questi gruppi misti? Quali saranno i programmi da seguire? Ma soprattutto c’è un programma?». Tutti aspetti che il documento dipartimentale non affronta e che secondo il sindacato rappresentano un vuoto troppo grande sul quale non si può soprassedere.

Una critica puntuale che torna anche nelle riflessioni del Movimento della scuola. Ancora Frigeri: «Il DECS propone di superare la differenziazione strutturale con lo strumento delle classi dimezzate, suggerendo un contenitore alternativo, senza indicare il contenuto vero e proprio del progetto pedagogico». Frigeri insomma si chiede, assieme a D’Ettorre, quale sarà il progetto didattico. «Come si struttura l’attività li dentro». Una domanda decisiva che è rimasta lettera morta. «Per rendere credibile il progetto, occorre riempire questo vuoto. Eventuali risultati interessanti dipendono da questo contenuto, su cui il Dipartimento per ora è rimasto silente». La riflessione dipartimentale, insomma, si è limitata a osservare che i laboratori garantiranno condizioni migliori di insegnamento e di apprendimento, «ma non è affatto scontato che sia così», concludono all’unisono D’Ettorre e Frigeri.