Su gentile concessione della redazione di “Verifiche”, pubblichiamo l’intervista curata da Saffia Shaukat al professor Gert J. J. Biesta, autore di Riscoprire l’insegnamento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2022. L’intervista è apparsa sul numero di ottobre della rivista ( a cui ci si può abbonare cliccando qui).

Ricordiamo che il prossimo 13 dicembre si terrà un incontro sul libro di Biesta organizzato dal circolo di lettura sulla scuola promosso dal Movimento della Scuola e da Verifiche.

Le nuove teorie dell’apprendimento si sono sviluppate nel contesto della pedagogia critica, esse sono tradizionalmente di sinistra e sono nate da una prospettiva di emancipazione dello studente. Esso è posto al centro del processo di apprendimento al fine di liberarlo dall’autorità dell’insegnante. Perché, però, a suo avviso, questa visione della “libertà” è ingannevole?

In un certo senso l’argomento è piuttosto semplice, ma credo anche che sia molto importante per una serie di ragioni educative e politiche. Direi che se le persone vogliono imparare, possono farlo. Se si vuole imparare non c’è bisogno di una scuola e non c’è bisogno di un insegnante. Il problema di imparare da soli, però, è che si impara solo ciò che, per così dire, è già “disponibile”. Questo significa che sarete in grado di imparare solo le cose che deciderete di cercare – e ovviamente potrete cercare solo ciò che sapete già di poter cercare. Oppure imparerete cose che per qualche motivo incrociano il vostro cammino come, per esempio, e al giorno d’oggi, tutto ciò che vi passa davanti quando vi connettete alla rete.

Il suggerimento che i “discenti” – o come preferisco chiamarli io: gli studenti – non debbano essere solo al centro del processo educativo, ma debbano anche decidere cosa vogliono imparare, limita quindi tale apprendimento a ciò che sanno già di poter cercare o a ciò che, attraverso ogni tipo di altre forze, arriva alla loro attenzione. Ma queste “altre forze” – pensate ancora una volta ad Internet – non sono innocenti o nel vostro interesse, e in molti casi non sono interessate né alla vostra libertà ma piuttosto al vostro denaro. La maggior parte di ciò che accade sui social media non è affatto sociale, ma avviene solo spingere ad acquistare alcuni prodotti: nel quadro della nuova “economia dell’attenzione”, essi rendono alcuni “influencer” più influenti, proprio perché alcune aziende possano vendere.

Naturalmente, la liberazione dell’istruzione da insegnanti autoritari che vogliono avere un controllo totale sul pensiero e sul lavoro dei loro studenti è chiaramente mossa emancipatoria; tuttavia, la “soluzione” per questo problema non è sbarazzarsi degli insegnanti o del programma di studi o della scuola e lasciare che l’apprendimento “avvenga”, questo perché in questa situazione esso sarà semplicemente controllato da altre forze o, nella misura in cui gli studenti decidono cosa vogliono imparare, manterrà l’apprendimento confinato a ciò che gli studenti già sanno e sanno di poter chiedere.

Il compito dell’educazione – e questo è centrale nel lavoro degli insegnanti e delle scuole – è dunque quello di mostrare agli studenti possibilità, opportunità, parti del mondo e aspetti del mondo che non sapevano di poter chiedere. Da questo punto di vista, la cosiddetta libertà che gli studenti otterrebbero se potessero dirigere il proprio apprendimento, è in realtà una libertà molto limitata e politicamente molto problematica. Piuttosto che liberare, essa lega in realtà gli studenti alla loro situazione esistente, il che significa anche che la cosiddetta libertà di apprendere è ideologica, in quanto dice di offrire libertà ma nasconde i vincoli e i controlli che operano sullo sfondo.

Può definire per i nostri lettori il concetto di “libertà difficile” di Lévinas e presentare la sua concezione di “soggettività” dello studente?

Mi piace l’idea che Levinas colleghi la parola “libertà” con l’aggettivo “difficile” poiché oggi abbiamo spesso un’idea piuttosto superficiale e “facile” di cosa sia la libertà. Sentiamo dire, per esempio, che la libertà significa che ognuno può fare ciò che vuole o può scegliere ciò che vuole – ho chiamato questa idea “libertà come shopping”, dove il mondo è visto come un negozio e noi entriamo e prendiamo ciò che vogliamo. Ma se guardiamo più seriamente alla libertà, allora si capisce che essa ha a che fare con la nostra capacità di esseri umani di agire “altrimenti”, cioè di agire al di fuori dei sistemi, delle abitudini o del controllo esterno. Se non c’è nessuno, o nessun sistema, o nessuna autorità esterna che ci dica cosa fare, dobbiamo allora capire da soli cosa fare (o astenerci dal fare). Questo rende la libertà una cosa molto più difficile, rispetto a pensare che essere liberi significhi agire senza alcun vincolo.

Levinas sostiene che incontriamo la nostra libertà in quelle situazioni in cui qualcosa o qualcuno ci pone una domanda, si rivolge a noi, cerca il nostro aiuto, o cerca una risposta… Si può dire che in queste situazioni incontriamo realmente la nostra libertà, poiché se qualcuno ci chiede aiuto, non siamo mai costretti a farlo: possiamo rifiutare o andarcene. Questo significa che, incontrando la nostra libertà, incontriamo finalmente noi stessi. Si tratta di domanda è una domanda rivolta al Sé, e quindi una domanda a cui si risponde- in libertà. In questo modo ci rendiamo conto che non siamo oggetti che agiscono solo a seguito di un controllo esterno, ma siamo Soggetti della nostra stessa vita.

Perché l’insegnante non può essere ridotto a un “facilitatore” all’interno di una comunità di apprendimento al fine di svolgere veramente il proprio compito educativo?

Ricollegandomi ancora alla prima domanda, direi che l’insegnante non può e non deve essere un facilitatore poiché lo scopo dell’insegnamento – e più in generale della scuola – non è semplicemente di facilitare l’apprendimento che scelgono, ma di insegnare loro. Ora, l’insegnamento non deve però essere confuso con il dire agli studenti cosa fare e come pensare. L’insegnamento è piuttosto un gesto che invita gli studenti a prestare attenzione a qualcosa – e la chiave dell’insegnamento è che invitiamo gli studenti a prestare attenzione a quegli aspetti del mondo e di loro stessi che non stavano cercando, che non sapevano nemmeno di poter cercare. L’insegnamento, in questo senso, consiste nel portare qualcosa di nuovo agli studenti – è un dono – piuttosto che facilitare ciò che gli studenti fanno comunque. È per questo che l’insegnamento è necessario, cioè per dare ciò che gli studenti non cercavano e non chiedevano, innanzitutto perché non sapevano di poterlo cercare o chiedere. Insegnare non significa dire agli studenti cosa devono fare o pensare rispetto a ciò che portiamo alla loro attenzione, il che renderebbe l’insegnamento nuovamente autoritario. Si tratta invece di lavorare attentamente e lentamente con gli studenti per esplorare le domande che nascono nell’incontro con ciò che portiamo alla loro attenzione. In questo senso, l’insegnamento è legato alla libertà nel modo in cui ne ho parlato in risposta alla domanda precedente.

Riferendosi alle teorie basate sull’apprendimento e alla “learnification”, come spiega d’un lato il tentativo di misurare risultati, stilare classifiche, e, dall’altro, una didattica sempre più “aperta e vuota”?

Penso che questi sviluppi facciano parte di una stessa “logica” di fondo, malgrado siano l’uno l’opposto dell’altro. Da un lato c’è una tendenza continua a orientare l’istruzione scolastica verso la produzione di risultati di apprendimento misurabili – l’espressione “risultati di apprendimento” è già per esempio profondamente problematica – e in tutto il mondo sono in corso molte misurazioni per confrontare e classificare le prestazioni dei diversi sistemi educativi. Ed è piuttosto triste che molte di queste misurazioni siano interessate solo alle prestazioni di tali sistemi educativi, piuttosto che chiedersi se tutto ciò abbia un qualche valore per la vita degli studenti in quanto esseri umani reali, piuttosto che come “unità di prestazione”.

Coloro che sono critici nei confronti di questi sviluppi – e io sono una delle persone critiche nei confronti del continuo restringimento del curriculum e della continua pressione su studenti e insegnanti che ne deriva – spesso pensano che se facciamo il contrario di ciò che sta accadendo qui, avremo una buona istruzione. Da qui la tendenza, riscontrabile anche in molti Paesi, a sostenere un’istruzione aperta, incentrata sulla creatività, sulla scoperta e sull’esperienza; spesso anche un’istruzione in cui lo studente viene messo al centro. Ma il contrario di una cattiva idea non è automaticamente una buona idea, e questo è sicuramente il caso in questione. Entrambe le opzioni – il controllo estremo e l’apertura estrema – non sono, a mio avviso, casi di educazione buona e significativa.

Mentre nella prima opzione non c’è quasi spazio per gli studenti che “arrivano” nel mondo, nella seconda c’è il rischio che tutto sia incentrato sullo studente e che il mondo – il mondo fisico, il mondo materiale, il mondo vivente, il mondo sociale – non sia davvero importante, perché è tutto incentrato sull’allievo. Ma lo scopo dell’educazione non è né controllare lo studente, né lasciare che cresca, si sviluppi e sia creativo. Lo scopo dell’educazione è sostenere e incoraggiare la nuova generazione a incontrare il mondo, ad arrivare nel mondo e a incontrare sé stessa nel mondo. L’educazione consiste nel portare il giovane e il programma di studio, per usare le parole di John Dewey, in “conversazione” o in dialogo.

Questa è la “terza opzione” che continuo a sostenere nel mio lavoro, ad esempio quando definisco la riscoperta dell’insegnamento un argomento progressista per un’idea conservatrice.

Le finalità dell’educazione sono da lei presentate attraverso i concetti di conoscenza, socializzazione e soggettivazione. Se però vogliamo svincolare l’insegnamento dall’apprendimento, quale dovrebbe essere il ruolo del “contenuto” nel dialogo tra insegnante e studente? Esso è un mero pretesto, un’occasione?

“Contenuto” è una parola un po’ fuorviante, perché evoca immediatamente l’immagine di educazione quale trasferimento di contenuti dall’insegnante allo studente. Credo che sia meglio parlare di curriculum come di un “corso di studi”, e cioè del modo in cui organizziamo le “traiettorie” educative per i nostri studenti. Lo facciamo alla luce degli scopi dell’educazione, e una delle difficoltà insite nell’educazione è che un buon corso di studi per gli obiettivi di conoscenza non è automaticamente anche un buon “corso di studi” per gli obiettivi di socializzazione o soggettivazione. Quindi, molto spesso dobbiamo affrontare tensioni e compromessi se vogliamo che l’educazione sia orientata verso tre ambiti di scopo e non sia ristretta ad uno solo.

Penso che i contenuti possano essere una parte importante di un curriculum, ma non essi sono mai un obiettivo in sé. Solo dopo aver deciso che vogliamo assicurarci che i nostri studenti siano in grado di pensare in modo storico, per esempio, o che possano fare chimica con una sufficiente comprensione di ciò che stanno facendo, possiamo iniziare a pensare a quale tipo di contenuto dovrebbero incontrare.  Restando però sempre altre domande su cosa sia effettivamente il contenuto, su cosa gli studenti debbano fare con un determinato contenuto e su quale sia la qualità educativa di un determinato contenuto. Quindi i contenuti sono importanti, ma l’educazione non parte mai dai contenuti, inizia sempre con delle domande sugli scopi e sulle ambizioni che noi insegnanti abbiamo.

Attraverso il processo che lei ha definito “pendio scivoloso”, la ricerca in scienze dell’educazione spesso si riduce ad approcci misurabili. Come potremmo prendere in considerazione – in una prospettiva comparativa – le dimensioni meno misurabili dell’educazione?

Innanzitutto, non sono sicuro di quanto sia significativo fare confronti nel campo dell’istruzione. Il confronto spesso porta alla competizione, mentre la vera domanda nel campo dell’istruzione non è chi può vincere la gara al vertice, ma se stiamo fornendo a tutti i giovani una buona istruzione. In secondo luogo, non sono sicuro che alcune cose siano facili da misurare ed altre meno. Sembra che si possa misurare facilmente se qualcuno sa contare o scrivere, ma se vogliamo davvero valutare cosa significa saper contare o scrivere, le cose sono molto più complicate. Perciò penso che, per quanto riguarda le dimensioni che vengono misurate in ambito educativo, spesso si assiste a un’enorme semplificazione. Forse la mia risposta è che misurare l’istruzione è in realtà molto più difficile di quanto pensiamo e l’idea che alcune dimensioni siano meno misurabili di altre può essere un’illusione dovuta all’accettazione di misurazioni troppo semplicistiche che catturano la totalità di ciò che si pretende di misurare.

Nei suoi testi lei fa spesso riferimento all’insegnante come “artigiano” e non come professionista e sottolinea l’importanza di adottare tre sguardi diversi e non solo quello più “empirico”, focalizzato sui risultati visibili in classe. In tal senso, quale potrebbe essere il suo consiglio per la formazione degli insegnanti?

Il motivo per cui si pensa l’insegnamento in termini di “artigianato” è quello di contrastare l’idea dell’insegnamento come tecnica in cui, se si seguono le regole o ciò che dicono le “prove”, tutto andrà per il meglio. In realtà se voi insegnanti seguite i protocolli ma i vostri studenti si rifiutano di collaborare, non succederà nulla.  L’insegnamento richiede perciò sempre una sensibilità alla situazione specifica e una capacità di “fare” buona educazione con una serie di “elementi” imprevedibili – quali gli studenti. Dopo tutto, il lavoro dell’insegnante non è tecnico, ma contribuisce al bene comune e alla capacità dei giovani di vivere al meglio la propria vita. Qui sta l’artigianato dell’insegnamento. Questo però non preclude la possibilità di pensare all’insegnamento, come “mestiere” o professione. In tal senso, è simile ad altre professioni come la medicina e la legge. L’insegnamento richiede conoscenze e competenze piuttosto specialistiche, implica un giudizio su ciò che deve essere fatto. E credo che gli insegnanti, come gruppo, debbano partecipare alla regolamentazione del proprio settore professionale, un’altra caratteristica delle professioni.

Alcuni hanno sostenuto che l’insegnamento è al massimo una para-professione, perché gli insegnanti non decidono interamente il contenuto e la direzione di ciò che fanno. Lo stesso vale però per tutte le altre professioni: gli insegnanti offrono un servizio alla società, ma lavorano all’interno di norme e regolamenti che hanno lo scopo di rendere tale lavoro possibile e di buona qualità.

In tutto questo – e questo si ricollega all’altra parte della sua domanda – è di fondamentale importanza che gli insegnanti, e la società più in generale, comprendano ciò che è unico e distintivo della loro pratica. Al giorno d’oggi sono in molti a sostenere che gli insegnanti debbano avere un atteggiamento di ricerca nei confronti della propria pratica. Alcuni sostengono addirittura che la “logica” dell’insegnamento sia simile a quella della ricerca sperimentale e dovrebbero quindi studiare le relazioni tra le proprie azioni e l’impatto di queste sugli studenti allo stesso modo in cui nella ricerca sperimentale i ricercatori fanno esperimenti e ne studiano gli esiti.

Questa, a mio avviso, è un’enorme semplificazione di ciò che è l’insegnamento. È qui che ho sostenuto che gli insegnanti non devono solo – e forse non devono affatto – avere un occhio empirico, cioè guardare alla loro pratica in termini di interventi ed effetti. Come insegnanti dobbiamo adottare “occhi” molto diversi. Una dimensione davvero importante è essere in grado di vedere nei nostri studenti possibilità che ancora non sono reali: dobbiamo credere nei nostri studenti, avere fiducia che le cose possano cambiare – e che gli adolescenti difficili che abbiamo di fronte possano diventare esseri umani belli e premurosi, per esempio. Dovremmo orientare la nostra azione su questo possibile futuro dei nostri studenti, invece di limitarci a “sistemarli” nel presente. Gli insegnanti dovrebbero quindi essere in grado di vedere molto più lontano più di ciò che è “visibile” nel qui ed ora.

Quali insegnanti a volte dobbiamo quindi cercare di vedere meno di ciò che abbiamo di fronte, poiché ancora una volta, se ci fissiamo solo sui nostri studenti nel presente, corriamo il rischio di precludere delle nuove possibilità, invece che aprire nuovi scenari.

L’implicazione forse più importante per la formazione degli insegnanti è che dobbiamo aiutare i nostri studenti a vedere la classe e i singoli studenti così, piuttosto che con l’occhio della ricerca sperimentale, dove gli studenti possono apparire solo come “oggetti di intervento”, ma non come esseri umani con un futuro molto più aperto.

Alla fine, la vostra riflessione porta a pensare in termini di multidimensionalità e complessità la relazione educativa e gli scopi dell’educazione. Come tradurre questa complessità in pratica ed evitare la trappola del “toolkit”?

Credo che la chiave per affrontare la complessità in educazione sia che gli insegnanti siano consapevoli, e cioè che lavorino con una direzione. Molto di ciò che cerco di dire sull’insegnamento non è un “programma” che deve essere “consegnato”, ma piuttosto fornisce agli insegnanti un senso di orientamento. Lavorare partendo dall’idea che siamo sempre interessati alla conoscenza, alla socializzazione e alla soggettivazione, cioè che il nostro compito è sempre quello di attrezzare i nostri studenti per l’azione, di fornire loro un orientamento nel mondo e di preoccuparci del fatto che siano soggetti della loro stessa vita, dà all’insegnamento un orientamento molto diverso rispetto a quello che abbiamo se pensiamo che il nostro compito sia quello di spingere i nostri studenti ad ottenere un punteggio elevato nei test.

Il lavoro dell’insegnante consiste quindi nel trovare delle modalità per un insegnamento che sia buono, e aggiungerei anche bello. È per questo che l’insegnamento non è solo un mestiere ma anche un’arte, ed è per questo che l’insegnamento richiede l’abilità di creare educazione nel qui e ora, con questi studenti, queste risorse, in questa situazione, e così via. Senza un senso di orientamento, senza una comprensione della complessità tutta particolare delle finalità educative, tutto questo è impossibile. Il compito diventa possibile e degno se gli insegnanti hanno una direzione e un orientamento. In un certo senso è questo che cerco di offrire con il mio lavoro: un modo di parlare di educazione, un modo di dare un senso all’educazione, un modo di vedere le classi e gli studenti e un modo di dare una direzione a questo lavoro sempre “creativo” che è l’insegnamento.