Pubblichiamo il seguente articolo di Alessandro Frigeri, apparso sulla rivista Verifiche del giugno 2022 (anno 53, n.2).

Nell’ottobre scorso è apparso nelle librerie l’ennesimo testo sulla scuola scritto da Paola Mastrocola, questa volta firmato con il marito, il sociologo Luca Ricolfi: Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, edito da La nave di Teseo. E come era già successo per altri suoi libri dedicati al tema[1], l’opera ha avuto un certo successo, se n’è parlato nel dibattito pubblico, un discreto numero di insegnanti l’hanno letta. Non solo in Italia, ma anche alle nostre latitudini.

È così che quest’anno mi è capitato in più di un’occasione di parlarne con dei colleghi, scoprendo – anche se non è stata una vera sorpresa, è quanto era avvenuto anche con le uscite precedenti – che si tratta di un libro che polarizza gli animi: da una parte vi sono gli entusiasti per quanto letto, dall’altra gli scandalizzati. Ebbene, sono riuscito nell’ardua impresa di assumere un atteggiamento critico nei confronti dei miei interlocutori dialogando sia con gli uni che con gli altri! A me la Mastrocola fa questo effetto, perlomeno dal suo Togliamo il disturbo: mi gettano nello sconforto coloro che sembrano non cogliere il carattere retrivo del suo pensiero e nel contempo provoca in me una reazione non molto diversa chi si rifiuta di ammettere che molti dei problemi denunciati nei suoi libri siano di scottante attualità (e gravi in misura preoccupante). 

Direi che vivo la stessa imbarazzante situazione nella quale puntualmente mi ritrovo quanto tra insegnanti – spesso discutendo il caso di uno studente o di una classe “difficile” – ci si divide in due contrapposte fazioni, i buonisti e i rigoristi, che si muovono vicendevolmente le peggiori accuse. In quei frangenti, mi capita di non riuscire a parteggiare, paralizzato dall’impossibilità di contrapporre l’importanza dell’empatia nei confronti dei discenti, che quasi sempre manca ai secondi, con la difesa intransigente della serietà e del valore dell’attività scolastica, che sovente sono sottovalutati dai primi. Il rischio è quello di passare per essere un confuso, uno schizofrenico.[2]

Per evitare anche questa volta questo pericolo, forse è il caso di provare a spiegare come vedo le cose e con quali occhi leggo i saggi dell’illustre collega torinese da qualche anno in pensione.

I problemi che attanagliano la scuola non vanno negati

Una domanda a cui i detrattori sbrigativi della Mastrocola faticano a rispondere è quella relativa alle ragioni della popolarità che i suoi libri hanno tra gli insegnanti, in particolare, seppur non solo, tra coloro che frequentano circoli di sinistra.[3] Ci si limita solitamente a riesumare il luogo comune secondo cui, poiché la nostra professione comporta una fisiologica resistenza al cambiamento e alla riforma (?), gli insegnanti sono facili prede di coloro che, conservatori, inneggiano al “bei tempi che furono”.

A me pare invece che il successo delle sue idee sia da attribuire innanzitutto al fatto che queste entrino facilmente in sintonia con il loro vissuto, con le aspirazioni e le frustrazioni che in questi ultimi due decenni hanno attraversato il corpo insegnante. Con uno stile semplice e accattivante, la Mastrocola richiama innanzitutto alcune importanti (e reali) trasformazioni che la nostra professione ha subito. Lo fa con continui riferimenti – a volte espliciti, a volte tangenziali – alla perdita di autorevolezza della figura del maestro, allo svilimento – attraverso il progressivo scivolamento verso una funzione meramente esecutiva di istanze didattico-educative progettate da altri – di quell’autonomia intellettuale che tradizionalmente la caratterizzava, al peso ormai oppressivo delle incombenze burocratico-amministrative. 

In parallelo, la scrittrice parla con ostinazione di aspetti del sistema scolastico odierno, e del rapporto di questo con il contesto sociale, che da anni sono fonte di preoccupazione di (perlomeno una parte di) coloro che caricano di valori etico-politici il proprio mestiere di insegnante, che considerano ad esempio l’accesso al sapere che si propongono di agevolare un potente canale di emancipazione in mano alla società, e che quindi, per questo motivo, si ritengono in vario modo di sinistra. Quando la Mastrocola mette in guardia dall’indebolimento della dimensione umanistica della formazione delle nuove generazioni e grida allo scandalo di fronte all’utilitarismo con cui si definiscono sempre più di frequente i termini della missione educativa assegnata alla scuola, a partire dall’idea che tutta l’attività scolastica debba ruotare attorno all’acquisizione di competenze, interloquisce con questi insegnanti, non è difficile capirlo. Lo fa anche quando guarda con apprensione alla trasformazione della scuola da istituzione che si proponeva un tempo di educare per il bene pubblico a ente che oggi invece tende a voler offrire un servizio alle famiglie (e alle imprese!), quando cioè denuncia l’introduzione della logica di mercato nell’istruzione; lo fa pure allarmandosi di fronte alla perdita di peso che sta assumendo l’attività di studio nella nostra vita o quando sostiene l’idea che un abbassamento della qualità della preparazione culturale che la scuola si dovrebbe impegnare a garantire non potrà che svantaggiare soprattutto i ceti meno abbienti (è quest’ultimo il tema centrale della sua più recente fatica). Lo fa infine puntando il dito contro l’impeto (contro)riformista che ha caratterizzato le politiche scolastiche degli ultimi due decenni, che questi problemi ha sottovalutato, o negato, per molti versi direttamente alimentato.[4]

Gran parte di coloro che criticano le tesi della Mastrocola tendono a relativizzare l’importanza delle questioni che ho sommariamente elencato, talvolta non ne riconoscono l’esistenza. Come parte di quelle che si riconoscono negli strali lanciati dalla Mastrocola, sono anche queste voci perlopiù di sensibilità progressista, magari pure radicalmente di sinistra. Anch’esse denunciano l’esistenza di una crisi della scuola (chi non lo fa oggi, d’altronde?), ma ne individuano la causa principale nell’immobilismo di un sistema (e, in alcuni casi, di un corpo docenti!) incapace di trasformarsi in funzione delle esigenze dettate dalla società in evoluzione. È lo stesso ordine di argomenti utilizzati da tempo in tutti i paesi europei dalle autorità scolastiche (e dagli ambienti accademici che glieli forniscono): il rischio evidente è quello di portare più o meno consapevolmente acqua al mulino di chi sta applicando con sistematicità alla scuola riforme che, in nome dell’innovazione, intendono conformare i sistemi formativi ai dettami neoliberisti dominanti.[5]

L’estrema fragilità del Mastrocola-pensiero 

Il carattere preoccupante delle posizioni assunte da Mastrocola non è quindi da rintracciare nel “grido d’allarme” che lancia, fondatissimo, quanto nel suo tentativo di analizzare le ragioni dei problemi che solleva e di individuare delle soluzioni. Su questo piano non può non venir spontaneo mettersi le mani nei capelli, sia per ragioni di metodo che per ragioni di contenuto.

Per quanto riguarda le prime, come fa notare Christian Raimo impressiona sfavorevolmente la scelta reiterata di voler affrontare problemi complessi riguardanti la storia della scuola, il mutare dei suoi meccanismi di funzionamento e delle sue finalità, quasi esclusivamente attraverso il proprio sguardo soggettivo. Se la propria esperienza di insegnante può essere sicuramente un angolo di visuale privilegiato per indicare le difficoltà che si incontrano nel “fare scuola” oggi, essa da sola però non è di certo sufficiente nel momento in cui si cercano le loro cause: proprio in virtù della serietà degli studi a cui fa tanto riferimento nei suoi scritti, la Mastrocola dovrebbe avvalorare le sue tesi confrontandosi con la letteratura attraverso cui storici, pedagogisti e sociologi in questi decenni si sono occupati di scuola e di storia della scuola.[6] Solo nell’ultimo libro, su una questione specifica e dopo centinaia di pagine di nuovo dedicate alle storie scolastiche personali dei due autori, ci si propone di render conto con metodo scientifico della fondatezza delle idee sostenute nell’opera.[7]

A livello di merito, invece, il vero scempio è a mio giudizio l’idea, che fa da sfondo a tutta la riflessione della Mastrocola, secondo cui radice ultima dei problemi della scuola sia un ormai vittorioso “donmilanismo”. In altre parole, si individua nella democratizzazione degli studi (a partire dall’avvento della scuola media unica, nata in Italia nel 1963) e nella contestazione del carattere elitario della scuola pre-sessantottina il punto di partenza di una deriva che passo dopo passo ha portato ad abbassare il livello dell’istruzione, ad annacquare la dimensione culturale dell’educazione impartita, ad abolire una seria selezione scolastica e conseguentemente a formare intere generazioni segnate da un rapporto problematico con lo studio. Sul banco degli imputati finisce in particolare il pensiero pedagogico progressista, quello legato all’educazione attiva, alla scuola cooperativa e democratica, alla lezione di don Milani, appunto, che, in nome di «una sorta di “razzismo pedagogico”» nei confronti di chi aveva successo a scuola, associato indebitamente a chi era benestante[8], ha guidato lo smantellamento della scuola avvenuta nell’ultimo mezzo secolo. Si tratta di una lettura decisamente approssimativa della realtà, anzi di un vero e proprio suo travisamento, per almeno due grandi motivi: 

  • È una bella forzatura sostenere che la scuola odierna – la scuola-azienda, la scuola che ha indebolito l’afflato culturale in nome delle competenze – sia la scuola immaginata dalla pedagogia critica del XX secolo. Don Milani ad esempio, lo ricorda Vanessa Roghi, intervenne contro l’idea di abolire il latino nelle scuole medie: “per il bene dei poveri” era per lui fondamentale garantire a tutti un accesso alla cultura alta (risulta così che don Milani era un adepto ante litteram del Mastrocola-pensiero!).[9] La scuola contestata da Mastrocola è figlia delle politiche scolastiche messe in campo in piena epoca neoliberale, a partire dagli anni 2000, non in continuità con la stagione della contestazione alla scuola autoritaria e classista, ma piuttosto come reazione a questa. L’equivoco sorge dal fatto che, come peraltro succede non di rado nella storia, l’apparato ideologico con il quale queste politiche sono state giustificate si è appoggiato sui discorsi che hanno acquisito credibilità e consenso nei decenni precedenti, ma ribaltandoli di segno, torcendone il senso verso obiettivi profondamente diversi, talvolta antitetici (Gramsci applicò a questi casi la categoria di “rivoluzione passiva”): è così che oggi, solo per fare un esempio casuale, possiamo assistere a paradossi come quello di pedagogisti ammiratori del pensiero antiautoritario della Summerhill school che si dimostrano essere i più convinti fautori della pletorica, onnipresente e assai poco libertaria “valutazione per competenze”.
  • Credere, come fa la Mastrocola, che sia possibile (e utile) affrontare i mali della scuola con una maggiore severità della selezione scolastica, propagandando l’idea, semplice e stuzzicante, che per questa via la qualità dell’istruzione inevitabilmente ne guadagnerebbe, non è solo una balordaggine politica ma anche un’idiozia dal punto di vista fattuale. Non solo cioè significherebbe abbandonare definitivamente l’idea che la scuola possa essere qualcosa di più di un istituto di riproduzione di quelle disparità che la società ci consegna e che – se minimamente di sinistra – viviamo con insofferenza. Significherebbe anche non fare i conti con il fatto che «esiste una crisi dell’educazione che deriva dalle caratteristiche peculiari della contemporaneità»[10], una crisi cioè che non è solo il frutto di come funziona la scuola, ma anche il prodotto di dinamiche che riguardano tutta la società (si pensi ad esempio a quanto incidano, nel rapporto che le giovani generazioni hanno con lo studio, le nuove forme di relazione con le conoscenze dettate dal fenomeno della digitalizzazione). Non capire questo fatto, è pericoloso soprattutto dal punto di vista degli insegnanti: qualcuno potrebbe arrivare a pensare che i problemi si possano risolvere semplicemente imponendo loro un corretto modo di lavorare. Be’, in realtà qualcuno ci è già arrivato: Paolo Ricolfi in un’intervista di qualche mese fa propone che «così come si parla di responsabilità civile dei giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi, come un perito che è responsabile della perizia che firma».[11] Inquietante.

Insomma, se siamo alla ricerca di testi che ci aiutino a capire come interpretare con un occhio di sinistra la crisi oggi vissuta dalla scuola, forse sarebbe il caso di cambiare lettura: la stessa editoria italiana non manca di suggerire titoli decisamente più utili e rigorosi di quelli della Mastrocola, anche se forse meno glamour.[12]


[1] Prima de Il danno scolastico, Paola Mastrocola ha dedicato alla scuola altri tre testi: La scuola raccontata al mio cane (Guanda, 2004), Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda, 2011), La passione ribelle (Laterza, 2017). Le considerazioni esposte in questo articolo faranno riferimento a tutt’e quattro questi contributi, che espongono un’unica coerente e ben individuabile visione della scuola, seppure ogni libro metta l’accento su uno o più aspetti specifici.

[2] Mi ha confortato il fatto di scoprire di non essere il solo a vivere in tal modo situazioni simili: L. Malgioglio, Buonisti e rigoristi, 16.05.2019, http://www.professioneinsegnante.it/old/index.php/news/631-buonisti-e-rigoristi (cons. 23.05.2022)

[3] La stessa sorte è riservata ai testi di un altro personaggio, che negli ultimi anni ama scrivere di scuola con tesi e argomenti molto simili a quelli della Mastrocola: Ernesto Galli della Loggia. Quando uscì il suo L’aula vuota (Marsilio, 2019) mi disorientò il fatto che apparve una recensione elogiativa del libro in una rivista che in qualche modo è da considerarsi figlia di uno sguardo progressista, fin libertario, sul mondo e sull’educazione: P. Giacché, Tutto il peggio della scuola italiana, in «Gli Asini», n. 69 (2019), pp. 46-48.

[4] Mastrocola fa ovviamente riferimento al contesto italiano, ma in tutta Europa – Svizzera e Ticino compresi – i sistemi scolastici hanno subito politiche molto simili, allineate attorno alle direttive in materia di educazione dell’UE e dell’OCSE. Peraltro, alle politiche scolastiche dell’ultimo quarto di secolo in Europa e nel mondo, sul loro carattere controriformistico, cioè neoliberista (quindi assai poco riformistico), la Mastrocola fa riferimenti vaghi e impressionistici. Meglio far capo su questo terreno ad autori di area francofona o anglofona decisamente più rigorosi, come Christian Laval, Martha Nussbaum, Nico Hirtt, Samuel Johsua o Angélique del Rey.

[5] In Italia, a livello di interventi pubblici, sono diversi i contributi critici sul pensiero della Mastrocola che cadono a mio giudizio in questo tranello, seppure solo con una forzatura ingiustificata possono essere tutti tacciati di aperto neoliberismo, etichetta che nel fuoco della polemica è stata usata sovente a sproposito: se le posizioni del gruppo Condorcet (http://condorcet.altervista.org) tendono ormai su molti terreni a suggerire sì varianti di sinistra di misure apertamente funzionali alle politiche neoliberali, appoggiando ad esempio aberrazioni come la valutazione individuale dei docenti o l’alternanza scuola-lavoro, difficilmente si può dire altrettanto di autori o periodici (Vanessa Roghi, Christian Raimo, la rivista Jacobin) che hanno comunque dato questo taglio non pienamente convincente alla polemica con la Mastrocola.

[6] C. Raimo e V. Roghi, Il danno scolastico. Ne fa più la scuola democratica o certi libri di Mastrocola e Ricolfi?, 17.11.2021, https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/come-non-conoscere-o-non-capire-nulla-della-scuola (cons. 23.05.2022)

[7] Ciò avviene grazie all’intervento di Paolo Ricolfi, che espone i risultati di uno studio statistico sul rapporto tra origini degli allievi, qualità della scuola e successo sociale. Si tratta di un lavoro che qualcuno ha però contestato, almeno parzialmente: V. Sorella, Mastrocola e Ricolfi: quale è il vero danno scolastico?, 08.12.2021, https://www.doppiozero.com/materiali/mastrocola-e-ricolfi-quale-e-il-vero-danno-scolastico (cons. 24.05.2022)

[8] Nell’ultimo libro ha dovuto ammorbidire di un poco questa posizione, che mal si concilia con i dati forniti da Ricolfi, ma nei lavori precedenti la Mastrocola era arrivata a sostenere, in barba a un secolo di studi di sociologia dell’educazione, che «i “bravi” nascono un po’ dovunque, casualmente, in una famiglia o in un’altra, senza distinguere “l’un da l’altro ostello”: la cicogna non guarda dove depone il fagotto col bambino, se in uno sperduto casolare o in una reggia» (P. Mastrocola, Togliamo il disturbo, cit., p. 266)

[9] V. Roghi, Sul presunto donmilanismo ovvero perché Mastrocola dovrebbe studiare di più la storia della scuola italiana, 26.03.2017, https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/sul-presunto-donmilanismo (cons. 24.05.2022)

[10] V. Sorella, Mastrocola e Ricolfi: quale è il vero danno scolastico?, cit.

[11] La scuola progressista genera disuguaglianza. Sanzioni ai docenti che attestano il falso, Il Giornale, 15.10.2021

[12] Tra gli altri: G. Ferroni, La scuola impossibile, Salerno editrice, Roma, 2015; P. Bevilacqua (a cura di), Aprite le porte. Per una scuola democratica e cooperativa, Castelvecchi, Roma, 2018; A. Angelucci e G. Aragno, Le mani sulla scuola. La crisi della libertà di insegnare e di imparare, Castelvecchi, Roma, 2020.